"Doppio Gioco", di James Marsh


Ad ogni nuovo lungometraggio è sempre più palese come il Cinema di finzione di James Marsh, pur nella sua perfetta realizzazione tecnica, viva di un limite “emotivo” che gli impedisce di fare il definitivo salto di qualità. Anche in Doppio Gioco, infatti, il regista non riesce a creare un legame empatico con il proprio pubblico e a permettere allo spettatore di soffrire con i protagonisti.

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Ad ogni nuovo lungometraggio è sempre più palese come il Cinema di finzione dell’acclamato documentarista James Marsh (Premio Oscar per Man on Wire), pur nella sua perfetta realizzazione tecnica, viva di un limite “emotivo” che gli impedisce di fare il definitivo salto di qualità. Quei pregi che permettono a Marsh di essere un grande autore di doc-movies (ricordiamo il bislacco Project Nim presentato al Festival di Roma), su tutti un incredibile spirito d’osservazione, sono allo stesso tempo i difetti che gli impediscono, nella fiction, di creare un legame empatico con il proprio pubblico e di permettere allo spettatore di soffrire per le disgrazie e per le paure dei protagonisti.

 

Anche nell’ultimo Doppio Gioco (dall’inglese Shadow Dancer) , infatti, il regista si presenta con lo stesso identico problema. La vita di Collette, giovane informatrice all’interno dell’Ira nella Belfast del 1993 (l’anno più duro nella guerra tra terroristi irlandesi e governo inglese) si svolge davanti ai nostri occhi senza alcuna scossa o spinta emotiva. I suoi dubbi, le sue paure e il suo profondo senso di colpa non ci toccano quasi mai, pur messi in scena dalla performance convinta e sentita della sua interprete (l’ottima Andrea Riseborough). Allo stesso modo il mondo cattolico irlandese e il suo senso di appartenenza e fedeltà assoluta alla Causa giusta, una crociata che lega tutti in un’enorme e indissolubile famiglia-comunità (con le sue regole e le sue severe punizioni) rimane più una fotografia da guardare che un racconto da vivere.

 

Da questo punto di vista l’inevitabile paragone con la irish-trilogy della coppia Jim Sheridan- Daniel Day-Lewis, specie se si pensa allo struggente The Boxer, è perso miseramente, nonostante l’indiscutibile qualità tecnica della regia. Marsh, infatti, non solo fotografa scenari e paesaggi molto affascinanti (ma con il patrimonio visivo dell’Irlanda sarebbe più sorprendente fare il contrario) ma ricostruisce, cosi come aveva fatto con lo Yorkshire di Red Riding:1980, l’atmosfera della Belfast anni novanta, con i suoi colori spenti e l’aria di morte che infonde le strade, ben trasmessa dall’efficace scena del funerale al giovane “soldato” dell’Ira. Alla luce di questa ottima confezione, non può che dispiacere l’incapacità del film (e del suo autore) di essere qualcosa di più che un semplice buon prodotto.  

 

 

 

 

 

 

Titolo originale: Shadow Dancer
Interpreti: Andrea Riseborough, Clive Owen, Aidan Gillen, Domhnall Gleeson, Gillian Anderson, Brid Brennan, David Wilmot, Stuart Graham, Martin McCann
Origine: UK, Irlanda, 2012
Distribuzione: Moviemax
Durata: 101' 

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