DOSSIER "THE HURT LOCKER" – Ordigno III. Kaneda, che cosa esplodi?

DOSSIER THE HURT LOCKER. Ordigno 3. Kaneda, che cosa esplodi?Oggi ho dovuto assistere a un'applicazione di realtà aumentata (augmented reality) a scopo marketing, ovviamente. Non traduciamola realtà amplificata, per favore: non è amplificata, e tantomeno lo diventa la nostra percezione; è massa dilatata, gonfiata, assecondata per creare ancora nuove forme di consenso. Il contrario di ciò che chiediamo al cinema. L'opposto di ciò che la macchina da presa della Bigelow, come uno spaziale corpo-bomba lanciato fin dentro il sole nero della violenza, ci aiuta a guardare con occhi apertichiusi.

 

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Il primo artificiere, in quegli istanti dell'incipit di un film in cui iniziamo a declinare il meccanismo dell'affezione verso quello che riteniamo un personaggio, meglio, una persona, salta in aria esponendoci al primo lutto: il sergente Matt Thompson Guy Pearce, il sangue che gli esplode nel volto di fronte all'imprevedibile massa solare della bomba è una verità della guerra, è un falso della guerra filmata nel cinema: è la controfigura, volto attoriale più noto, del sergente William James Jeremy Renner, in quella che è l'esplosione paradigmatica che apre il film della Bigelow e che introduce tutte le altre: l'eroe, se c'è, è definitivamente inutile, sovraesposto alla deformazione dell'informazione, perfino handicappato, mancante, mutante (X-men senza poteri, però), certamente tossico: due volte tossico, perchè se sopravvive, è un rifiuto tossico impazzito, una splendida maceria contaminante che serpeggia nelle maglie dell'informazione negata e stravolta; e se sopravvive, è per una questione di dipendenza; non dalla sopravvivenza ma dal rifiuto di una raggiunta raggiunta conquista di una durata della vita che cresce sensibilmente ad ogni lustro: «una vita media che, paragonata alle condizioni del terzo mondo o di un passato anche prossimo, si consuma in una sorta di limbo, in una assenza di forti tensioni. Sazietà dello stomaco, vita lunga e senza scosse e una rutilante abbondanza di intrattenimenti eliminano dall’orizzonte della vita sociale ogni autentica espressione vitale, e ogni eccesso.»*

Una condizione a cui l'artificiere, ossessionato dalla potenza del caso e dalla sfida della propria forza, condotto a fare i conti con la fallacia delle proprie impressioni (la scena, meravigliosa, in cui vaga incappucciato in borghese alla ricerca dell'assassino di un ragazzo che non è nemmeno quel ragazzo, una straziante variazione, deviazione nella notte al di là del filo spinato) non sceglie neppure di sottrarsi: non può fare altrimenti. Sappiamo come uccidere ma non come vivere. Cerchiamo la sovranità di un caso che è spaventoso, e di una violenza che è programmatica, ma ci fa capaci di agire senza pensare, sottraendoci pietosamente al peso mortale di una decisione che richieda più di qualche minuto. La prima esplosione è un nodo del film intero, una bomba a mano in un congegno a orologeria, un beffardo antefatto a un'incursione di raro spessore morale nel discorso sulla morte e sulla violenza che solo il cinema oggi sembra poter fare, e a maggior ragione certo cinema che si esprime soprattutto attraverso immagini di lacerante immediatezza, di efferata poesia d'azione, come quello di Michael Mann. Come The Hurt Locker-inlandempire & fantascienza della guerra, intimità della paura. Grazie per aver giocato. La paura è l'ultima forma di adrenalina consentita. Soprattutto, cerchiamo l'incontro con la violenza quale supremazia incontrollabile, lo scontro con un boato ferino, una massa che sfrigola e afferma la sua divinità del tutto imprevedibile. Kaneda, che cosa vedi?

 

L’unico modo di riflettere (sul)la morte nella cultura moderna sembra essere la forma apocalittica. Ce lo racconta troppo bene Vollmann in Come un'onda che sale e che scende. Ma non si tratta di epica. La profonda estetica della figura del guerriero e l’idea della bellezza celata nella morte valorosa (soggetti presenti pressappoco in tutte le epoche) si può definire totalmente assente nel nostro tempo, se non nella forma contorta e travisata dell’eroe mediatico, da qualunque parte lo si concepisca: sia che infligga la morte (dal martire patriottico alla scheggia che riesce a superare le sofisticate ingegnerie difensive con la forza brutale del proprio corpo lanciato allo sbaraglio) o che la subisca (l'innocente studentessa fatta a pezzi dall'innocente studentessa). Riccardo Notte ne La condizione connettiva, saggio di diversi anni fa, lo spiega così:

 

Nella finzione cinematografica, ma molto meno nella realtà, è ancora lecito rivelarsi al mondo nelle vesti dei grandi eroi.(…) Però soltanto se l’eroismo si consuma nello spazio profondo, cioè in circostanze inumane o comunque eccezionali, per esempio oltre la stratosfera, o sotto la pressione dei duelli tecnologici aerei: ecco i top gun, gli astronauti che salvano il mondo dall’asteroide assassino, i cow boy dello spazio: tipi umani che, però, il più delle volte muoiono nell’adempimento del loro eroico e non richiesto compito. E muoiono, appunto, eroicamente, compianti dal mondo intero. In questi casi si può osservare in presa diretta un colossale transfert collettivo che sposta in un paradigmatico “altrove” la minaccia della morte subdola, collettiva e forse totale.(…) Ma nella finzione non è quasi mai assente il sospiro di sollievo collettivo, a malapena celato dal senso di colpa, perché siffatti scomodi personaggi, una volta esaurito il loro eccezionale, straordinario compito, nella dinamica sociale non troverebbero alcuna collocazione.

 

L'unico luogo in cui l'eroe sopravvive è allora un immaginario condannato anch'esso alla mutazione e alla morte, il moderno giocare con l'Apocalisse che viene continuamente messo sul tavolo dai mezzi di comunicazione di massa attraverso la spettacolarizzazione del dolore e della catastrofe: ma non ci si illuda che la morte ripresa, commentata e data in pasto al cittadino medio testimoni un modo per reintrodurla nel circolo della vita: si tratta anzi di un ennesimo filtro, di una mediazione il cui unico esito è quello di tratteggiare o addirittura fabbricare l’immagine di un nemico, in chiave di manipolazione politica, per tenere desta la paura dell’Altro, quindi provocare sottomissione, bisogno di rassicurazioni e garanzie da parte del potere, dunque fiducia acritica in esso, e soprattutto quella terribile assenza di idee che non è certo sospensione, ma incapacità di giudizio di presa sulla realtà non dissimile da quella analizzata dalla Harendt a proposito della banalità del male. A questo si accompagna un curioso fenomeno, assolutamente peculiare della modernità, descritto con acume da Michel Vovelle in un’intervista successiva ai noti fatti dell’undici Settembre:

 

Già vent'anni fa, quando pubblicai il mio lavoro su La morte e l'Occidente, e ancor di più l'anno scorso nella nuova messa a punto per l'edizione francese, sono rimasto colpito dalla contraddizione dialettica tra il rafforzamento – da un lato – del tabù sulla morte di cui avevamo preso coscienza negli anni Cinquanta e – dall'altro – l'esplosione emotiva del lutto in occasione di episodi di portata limitata, come ad esempio la morte di personalità popolari. Una sensibilità duplice e contraddittoria caratterizza la nostra era: da una parte una sorta di diffusa mitridatizzazione rispetto al quotidiano spettacolo della crudeltà del mondo – mi riferisco al bilancio giornaliero dei morti dell'Intifada o alle stragi del sabato sera; dall'altra, le fiammate di emozione collettiva quando la morte – se posso usare questa espressione – non fa più la sua parte, non rimane cioè entro schemi prevedibili, ma ritorna a fare scandalo rimettendo in dubbio tutte le certezze alle quali si attacca la nostra inquieta società liberale.**

 

La medesima ambiguità si riscontra nella reazione alla catastrofe: in seguito all’undici Settembre ad esempio, assistiamo a un atteggiamento ambivalente e di ennesima rimozione. Se più che di dead, i famigliari delle vittime preferiscono parlare di missing, Vovelle commenta: «Non escluderei affatto che i cadaveri si siano davvero polverizzati in quel conglomerato vetrificato di catrame e acciaio: senza speranza mi appare la sproporzione tra il numero dei morti trovati e quello degli scomparsi. Ne deriva una duplice tentazione contraddittoria: da una parte fare quel che s'è fatto a Cernobyl, dove la centrale distrutta fu trasformata in un impressionante sarcofago – ossia fare piazza pulita e ricostruire al suono delle campane di Wall Street; dall'altra elaborare un lutto presentabile attraverso anche nuove figure di eroi, individuali e collettivi, come pompieri e poliziotti».

All’interno di questa ambiguità, è lecito temere l’avvento di una nuova mostra delle atrocità. Ballard aveva indagato proprio sulla perdita del senso comune e sulla nascita di una nuova realtà simulata dai media, nella quale l’interdetto intorno alla morte si rafforza, così come la figura dell’eroe non si presenta che ricoperta da una dinamica generale di sollievo e retorica, o nelle vesti allarmanti dell’ Agente del male da debellare ad ogni costo, ad ogni prezzo, compreso lo sterminio di intere popolazioni innocenti (il mostro moderno Bin Laden che deve essere scovato a suon di bombe intelligenti tra il sangue e le macerie, con la benedizione della mediocrità dell’opinione comune, che trema di sgomento e di seduzione di fronte alla “caccia” cinematografica, all’inseguimento, in una confusa voglia di spionaggio e mistero che si nega nella vita di tutti i giorni sotto l’egida della normalizzazione). Si impone un’altra acuta riflessione di Vovelle:«È effettivamente notevole constatare che lo scenario applicato a Manhattan non ha niente di originale né per chi come me ha fatto ricerche sulla morte, né per il vasto pubblico – più di giovani che di vecchi – che è stato coinvolto nello spettacolo mediatico dell'Apocalisse. Secondo il modello americano, quello che in misura maggiore influisce su questo mercato, il filone catastrofista si risolve in un happy end grazie alle cure di un eroe ordinario o di personaggi dai poteri straordinari. Si può dunque concludere che i kamikaze non avevano niente da inventare – se non dirottare un Boeing – perché la loro piéce era stata largamente anticipata. Ci si può domandare fino a che punto questa banalizzazione della catastrofe abbia contribuito da una parte ad anestetizzare i consumatori, dall'altra a diffondere un'ideologia del bene e del male di cui il modello americano è l'esclusivo riferimento».

L’incapacità di gestire un panorama mediatico fatto di banalizzazione della catastrofe, attraverso una sorta di generale “anestesia di massa”, si accompagna ad un «complesso di Lazzaro» , fautore del fiorire di una «necrocultura»*** in chiave consumistica e popolare, analizzabile come il prepotente riaffiorare del pensiero morte, delle angosce e degli esorcismi ad esso inevitabilmente collegati, nella cultura di evasione, nel circuito dell’alta moda, dei videogames, di certa arte contemporanea limitata a una concezione salottiera e mondana dell’evento artistico. Proprio in virtù della sua coatta esclusione dalla vita sociale e dal nascondimento operato sulla sua presenza “naturale”, a conferma della dimestichezza ormai esigua dell’uomo del nostro tempo con le modalità più concrete – e più degne di pietas – del disfacimento della umana materia: le piaghe e lo spargimento di sangue, DOSSIER THE HURT LOCKER. Ordigno 3. Kaneda, che cosa esplodi?i dettagli della decomposizione, possono rientrare nella narrazione senza essere concepiti come morbosi, patologici, al massimo nel fantasy, nella letteratura horror (già nel film d’autore, di denuncia, o comunque di impianto più introspettivo e realistico, come vedremo, viene avvertita come uno scandalo). La Bigelow, invece, scandaglia la natura della guerra per quello che è: un distributore automatico di morte, da mandare in loop. Condividi / Guarda di nuovo… La morte è indecifrabile: ma non deve essere misteriosa, se col mistero si introducono categorie punitive. Ancora una volta è l’alterità, tra prezioso arricchimento e minaccioso Intruso, a porsi come nodo cruciale della questione; se una cultura che bandisce la morte è cultura di morte, sosteneva Baudrillard, si fa impellente la necessità di esperire e riconoscere la presenza, anche sconvolgente, dell’altro. Anche se è coperto di esplosivo, come nella scena gemella dell'incipit, l'unica in cui James fallisce.

 

Si preferisce fermarsi su altre minacce, che, se appartengono all’ordine del fantastico, non perciò sono meno significative, da Star Wars a Star Trek, passando per Galactica e cento altri prodotti dello stesso tipo, si proiettano nelle stelle le grandi battaglie cosmiche dell’avvenire. Ma, attenzione, il viaggio dei nuovi Panurge è in effetti un viaggio verso la morte: morte siderale, o, ancor più inquietante, l’incontro con quegli esseri diversi che proliferano all’interno dell’universo umano. Recentemente, Alien ci ha offerto l’esempio di un essere strano che la nave spaziale porta in sé, come noi portiamo in noi stessi la morte. Se non andiamo noi nell’aldilà, sarà l’aldilà a venire a noi; e, siamone certi, non abbiamo da aspettarcene nulla di buono.****

 

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* R. NOTTE, La condizione connettiva. Filosofia e antropologia del metaverso, Bulzoni, 2002, pp. 64-66

 

** M. VOVELLE, Morte e tabù. Il lutto nel XXI secolo dopo Manhattan, “La Repubblica”, 25 Settembre 2001

 

*** F. GIOVANNINI, Necrocultura. Estetica e cultura della morte nell’immaginario di massa, Castelvecchi, 1998

 

**** M.VOVELLE, La morte e l’Occidente, Laterza, 1986, pp.686-687

 

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    Una condizione a cui l'artificiere, ossessionato dalla potenza del caso e dalla sfida della propria forza, condotto a fare i conti con la fallacia delle proprie impressioni (la scena, meravigliosa, in cui vaga incappucciato in borghese alla ricerca dell'assassino di un ragazzo che non è nemmeno quel ragazzo, una straziante variazione, deviazione nella notte al di là del filo spinato) DOSSIER THE HURT LOCKER. Ordigno 3. Kaneda, che cosa esplodi?non sceglie neppure di sottrarsi: non può fare altrimenti. Sappiamo come uccidere ma non come vivere. Cerchiamo la sovranità di un caso che è spaventoso, e di una violenza che è programmatica, ma ci fa capaci di agire senza pensare, sottraendoci pietosamente al peso mortale di una decisione che richieda più di qualche minuto. La prima esplosione è un nodo del film intero, una bomba a mano in un congegno a orologeria, un beffardo antefatto a un'incursione di raro spessore morale nel discorso sulla morte e sulla violenza che solo il cinema oggi sembra poter fare, e a maggior ragione certo cinema che si esprime soprattutto attraverso immagini di lacerante immediatezza, di efferata poesia d'azione, come quello di Michael Mann. Come The Hurt Locker-inlandempire & fantascienza della guerra, intimità della paura. Grazie per aver giocato. La paura è l'ultima forma di adrenalina consentita. Soprattutto, cerchiamo l'incontro con la violenza quale supremazia incontrollabile, lo scontro con un boato ferino, una massa che sfrigola e afferma la sua divinità del tutto imprevedibile. Kaneda, che cosa vedi?

     

    DOSSIER THE HURT LOCKER. Ordigno 3. Kaneda, che cosa esplodi?L’unico modo di riflettere (sul)la morte nella cultura moderna sembra essere la forma apocalittica. Ce lo racconta troppo bene Vollmann in Come un'onda che sale e che scende. Ma non si tratta di epica. La profonda estetica della figura del guerriero e l’idea della bellezza celata nella morte valorosa (soggetti presenti pressappoco in tutte le epoche) si può definire totalmente assente nel nostro tempo, se non nella forma contorta e travisata dell’eroe mediatico, da qualunque parte lo si concepisca: sia che infligga la morte (dal martire patriottico alla scheggia che riesce a superare le sofisticate ingegnerie difensive con la forza brutale del proprio corpo lanciato allo sbaraglio) o che la subisca (l'innocente studentessa fatta a pezzi dall'innocente studentessa). Riccardo Notte ne La condizione connettiva, saggio di diversi anni fa, lo spiega così:

     

    Nella finzione cinematografica, ma molto meno nella realtà, è ancora lecito rivelarsi al mondo nelle vesti dei grandi eroi.(…) Però soltanto se l’eroismo si consuma nello spazio profondo, cioè in circostanze inumane o comunque eccezionali, per esempio oltre la stratosfera, o sotto la pressione dei duelli tecnologici aerei: ecco i top gun, gli astronauti che salvano il mondo dall’asteroide assassino, i cow boy dello spazio: tipi umani che, però, il più delle volte muoiono nell’adempimento del loro eroico e non richiesto compito. E muoiono, appunto, eroicamente, compianti dal mondo intero. In questi casi si può osservare in presa diretta un colossale transfert collettivo che sposta in un paradigmatico “altrove” la minaccia della morte subdola, collettiva e forse totale.(…) Ma nella finzione non è quasi mai assente il sospiro di sollievo collettivo, a malapena celato dal senso di colpa, perché siffatti scomodi personaggi, una volta esaurito il loro eccezionale, straordinario compito, nella dinamica sociale non troverebbero alcuna collocazione.

     

    L'unico luogo in cui l'eroe sopravvive è allora un immaginario condannato anch'esso alla mutazione e alla morte, il moderno giocareDOSSIER THE HURT LOCKER. Ordigno 3. Kaneda, che cosa esplodi? con l'Apocalisse che viene continuamente messo sul tavolo dai mezzi di comunicazione di massa attraverso la spettacolarizzazione del dolore e della catastrofe: ma non ci si illuda che la morte ripresa, commentata e data in pasto al cittadino medio testimoni un modo per reintrodurla nel circolo della vita: si tratta anzi di un ennesimo filtro, di una mediazione il cui unico esito è quello di tratteggiare o addirittura fabbricare l’immagine di un nemico, in chiave di manipolazione politica, per tenere desta la paura dell’Altro, quindi provocare sottomissione, bisogno di rassicurazioni e garanzie da parte del potere, dunque fiducia acritica in esso, e soprattutto quella terribile assenza di idee che non è certo sospensione, ma incapacità di giudizio di presa sulla realtà non dissimile da quella analizzata dalla Harendt a proposito della banalità del male. A questo si accompagna un curioso fenomeno, assolutamente peculiare della modernità, descritto con acume da Michel Vovelle in un’intervista successiva ai noti fatti dell’undici Settembre:

     

    Già vent'anni fa, quando pubblicai il mio lavoro su La morte e l'Occidente, e ancor di più l'anno scorso nella nuova messa a punto per l'edizione francese, sono rimasto colpito dalla contraddizione dialettica tra il rafforzamento – da un lato – del tabù sulla morte di cui avevamo preso coscienza negli anni Cinquanta e – dall'altro – l'esplosione emotiva del lutto in occasione di episodi di portata limitata, come ad esempio la morte di personalità popolari. Una sensibilità duplice e contraddittoria caratterizza la nostra era: da una parte una sorta di diffusa mitridatizzazione rispetto al quotidiano spettacolo della crudeltà del mondo – mi riferisco al bilancio giornaliero dei morti dell'Intifada o alle stragi del sabato sera; dall'altra, le fiammate di emozione collettiva quando la morte – se posso usare questa espressione – non fa più la sua parte, non rimane cioè entro schemi prevedibili, ma ritorna a fare scandalo rimettendo in dubbio tutte le certezze alle quali si attacca la nostra inquieta società liberale.**

     

    DOSSIER THE HURT LOCKER. Ordigno 3. Kaneda, che cosa esplodi?La medesima ambiguità si riscontra nella reazione alla catastrofe: in seguito all’undici Settembre ad esempio, assistiamo a un atteggiamento ambivalente e di ennesima rimozione. Se più che di dead, i famigliari delle vittime preferiscono parlare di missing, Vovelle commenta: «Non escluderei affatto che i cadaveri si siano davvero polverizzati in quel conglomerato vetrificato di catrame e acciaio: senza speranza mi appare la sproporzione tra il numero dei morti trovati e quello degli scomparsi. Ne deriva una duplice tentazione contraddittoria: da una parte fare quel che s'è fatto a Cernobyl, dove la centrale distrutta fu trasformata in un impressionante sarcofago – ossia fare piazza pulita e ricostruire al suono delle campane di Wall Street; dall'altra elaborare un lutto presentabile attraverso anche nuove figure di eroi, individuali e collettivi, come pompieri e poliziotti».

    All’interno di questa ambiguità, è lecito temere l’avvento di una nuova mostra delle atrocità. Ballard aveva indagato proprio sulla perdita del senso comune e sulla nascita di una nuova realtà simulata dai media, nella quale l’interdetto intorno alla morte si rafforza, così come la figura dell’eroe non si presenta che ricoperta da una dinamica generale di sollievo e retorica, o nelle vesti allarmanti dell’ Agente del male da debellare ad ogni costo, ad ogni prezzo, compreso lo sterminio di intere popolazioni innocenti (il mostro moderno Bin Laden che deve essere scovato a suon di bombe intelligenti tra il sangue e le macerie, con la benedizione della mediocrità dell’opinione comune, che trema di sgomento e di seduzione di fronte alla “caccia” cinematografica, all’inseguimento, in una confusa voglia di spionaggio e mistero DOSSIER THE HURT LOCKER. Ordigno 3. Kaneda, che cosa esplodi?che si nega nella vita di tutti i giorni sotto l’egida della normalizzazione). Si impone un’altra acuta riflessione di Vovelle:«È effettivamente notevole constatare che lo scenario applicato a Manhattan non ha niente di originale né per chi come me ha fatto ricerche sulla morte, né per il vasto pubblico – più di giovani che di vecchi – che è stato coinvolto nello spettacolo mediatico dell'Apocalisse. Secondo il modello americano, quello che in misura maggiore influisce su questo mercato, il filone catastrofista si risolve in un happy end grazie alle cure di un eroe ordinario o di personaggi dai poteri straordinari. Si può dunque concludere che i kamikaze non avevano niente da inventare – se non dirottare un Boeing – perché la loro piéce era stata largamente anticipata. Ci si può domandare fino a che punto questa banalizzazione della catastrofe abbia contribuito da una parte ad anestetizzare i consumatori, dall'altra a diffondere un'ideologia del bene e del male di cui il modello americano è l'esclusivo riferimento».

    L’incapacità di gestire un panorama mediatico fatto di banalizzazione della catastrofe, attraverso una sorta di generale “anestesia di massa”, si accompagna ad un «complesso di Lazzaro» , fautore del fiorire di una «necrocultura»*** in chiave consumistica e popolare, analizzabile come il prepotente riaffiorare del pensiero morte, delle angosce e degli esorcismi ad esso inevitabilmente collegati, nella cultura di evasione, nel circuito dell’alta moda, dei videogames, di certa arte contemporanea limitata a una concezione salottiera e mondana dell’evento artistico. Proprio in virtù della sua coatta esclusione dalla vita sociale e dal nascondimento operato sulla sua presenza “naturale”, a conferma della dimestichezza ormai esigua dell’uomo del nostro tempo con le modalità più concrete – e più degne di pietas – del disfacimento della umana materia: le piaghe e lo spargimento di sangue, DOSSIER THE HURT LOCKER. Ordigno 3. Kaneda, che cosa esplodi?i dettagli della decomposizione, possono rientrare nella narrazione senza essere concepiti come morbosi, patologici, al massimo nel fantasy, nella letteratura horror (già nel film d’autore, di denuncia, o comunque di impianto più introspettivo e realistico, come vedremo, viene avvertita come uno scandalo). La Bigelow, invece, scandaglia la natura della guerra per quello che è: un distributore automatico di morte, da mandare in loop. Condividi / Guarda di nuovo… La morte è indecifrabile: ma non deve essere misteriosa, se col mistero si introducono categorie punitive. Ancora una volta è l’alterità, tra prezioso arricchimento e minaccioso Intruso, a porsi come nodo cruciale della questione; se una cultura che bandisce la morte è cultura di morte, sosteneva Baudrillard, si fa impellente la necessità di esperire e riconoscere la presenza, anche sconvolgente, dell’altro. Anche se è coperto di esplosivo, come nella scena gemella dell'incipit, l'unica in cui James fallisce.

     

    Si preferisce fermarsi su altre minacce, che, se appartengono all’ordine del fantastico, non perciò sono meno significative, da Star Wars a Star Trek, passando per Galactica e cento altri prodotti dello stesso tipo, si proiettano nelle stelle le grandi battaglie cosmiche dell’avvenire. Ma, attenzione, il viaggio dei nuovi Panurge è in effetti un viaggio verso la morte: morte siderale, o, ancor più inquietante, l’incontro con quegli esseri diversi che proliferano all’interno dell’universo umano. Recentemente, Alien ci ha offerto l’esempio di un essere strano che la nave spaziale porta in sé, come noi portiamo in noi stessi la morte. Se non andiamo noi nell’aldilà, sarà l’aldilà a venire a noi; e, siamone certi, non abbiamo da aspettarcene nulla di buono.****

     

    DOSSIER THE HURT LOCKER. Ordigno 3. Kaneda, che cosa esplodi?Oggi ho dovuto assistere a un'applicazione di realtà aumentata (augmented reality) a scopo marketing, ovviamente. Non traduciamola realtà amplificata, per favore: non è amplificata, e tantomeno lo diventa la nostra percezione; è massa dilatata, gonfiata, assecondata per creare ancora nuove forme di consenso. Il contrario di ciò che chiediamo al cinema. L'opposto di ciò che la macchina da presa della Bigelow, come uno spaziale corpo-bomba lanciato fin dentro il sole nero della violenza, ci aiuta a guardare con occhi apertichiusi.

     

     

     

     

     

    * R. NOTTE, La condizione connettiva. Filosofia e antropologia del metaverso, Bulzoni, 2002, pp. 64-66

     

    ** M. VOVELLE, Morte e tabù. Il lutto nel XXI secolo dopo Manhattan, “La Repubblica”, 25 Settembre 2001

     

    *** F. GIOVANNINI, Necrocultura. Estetica e cultura della morte nell’immaginario di massa, Castelvecchi, 1998

     

    **** M.VOVELLE, La morte e l’Occidente, Laterza, 1986, pp.686-687

     

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