Dove il cinema ha fallito. Città di Vetro arriva a teatro

Il primo romanzo della “Trilogia di New York” di Paul Auster arriva nei teatri di Manchester e Londra allestito con una nuova tecnologia

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E se la New York di Paul Auster prendesse vita? Paradossalmente questa idea l’hanno avuta gli inglesi della 59 Productions, studio formato da disegnatori, animatori e registi incaricato nel 2012 di occuparsi della parte grafica della cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Londra e di alcuni spettacoli di David Bowie. Questa volta stanno cercando di spingere la loro sperimentazione ancora più avanti, proponendo un’idea di teatro che sappia sfruttare le tecnologie del 3D e delle nuove installazioni per creare uno spettacolo che sia oltremodo realistico e vicino a quello che vediamo al cinema. Un film che però si svolge live, così è stato definito il progetto che non a caso ha al suo centro un soggetto dell’autore americano. Dopo il passaggio a Manchester, ad approdare al Lyric Hammersmith di Londra sarà proprio il primo romanzo di Auster che va a comporre la celebre Trilogia di New York, ovvero Città di Vetro. Un romanzo poliziesco che ha aperto una delle tante sfumature del postmoderno degli anni ’80 e che si basava proprio sulla percorrenza dello spazio urbano come luogo della perdita dell’unica via interpretativa. Un rifiuto quello dell’unicità di spazio, tempo e soprattutto persona che era programmatico già dal leggendario prologo: “Cominciò con un numero sbagliato, tre squilli di telefono nel cuore della notte e la voce all’apparecchio che chiedeva di qualcuno che non era lui. Molto tempo dopo, quando fu in grado di pensare a ciò che gli era accaduto, avrebbe concluso che nulla era reale tranne il caso. Ma questo fu molto tempo dopo. All’inizio, non c’erano che il fatto e le sue conseguenze. La questione non è se si sarebbero potuti sviluppare altrimenti o se invece tutto fosse già stabilito a partire dalla prima parola detta dallo sconosciuto. La questione è la storia in sé: che abbia significato o meno, non spetta alla storia spiegarlo.” Pare dunque emblematica questa scelta di rappresentarlo in luoghi ricreati alla perfezione ma che non hanno possibilità di movimento al di fuori del palcoscenico teatrale. Un’impossibilità di proporre a pieno nella realtà ma che ne accoglie la percezione. Un qualcosa che difficilmente era possibile fare al cinema, con grande divertimento di Auster che per anni ha visto fallire i tentativi che lo volevano sul grande schermo: “Alcuni hanno tentato ma io penso che sia fantascienza scappare dalle aspirazioni del realismo che un film stabilisce quasi automaticamente. La stranezza dei nostri giorni è molto difficile da catturare.”. Ed invece questa prospettiva di creare qualcosa che non è stato mai fatto ha affascinato l’autore che ha potuto confrontare il suo lavoro con quello che Leo Warner sta facendo per il teatro. La parte invece della sceneggiatura è stata affidata a Duncan Macmillan che dovrà riuscire a non contaminare le sfumature thriller dell’originale che si ricordano per le svolte narrative del protagonista autore/detective. Già i due autori hanno avuto modo di constatare che le interpretazioni che uno ha voluto dare al romanzo e che l’altro ha invece recepito si differenziano per questioni puramente biografiche, ma questo per uno scrittore vissuto negli anni ’80 non si dimostra un problema.

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Quello che è invece è curioso per Auster è come alla vigilia del suo 70esimo compleanno (che coincide anche con l’uscita del suo fluviale e profetico 4,3,2,1) ci sia stato per lui un ritorno alle origini. Infatti Auster iniziò scrivendo proprio script teatrali che non vennero mai prodotti. “Non avevo molto talento” ha dichiarato lo scrittore “Era troppo forte l’influenza che avevo da Beckett”. Un ammissione di un’ idolatria che indubbiamente si è portato dietro nei suoi lavori successivi e che in questa futuristica messa in scena di Città di Vetro trova il suo culmine. L’errare incessante nella città viene bloccato in un paesaggio che seppur realistico, per sua stessa natura rimane fermo. Dovrà quindi essere affidata totalmente alla parola il cambio di scenario che lo spettatore deve assimilare per accogliere i tanti punti di snodo della trama. L’apice, dunque, della prospettiva postmoderna della contaminazione che per Auster non è stata mai tanto quella della sperimentazione linguistica, quanto piuttosto quella dei generi. Quindi quale occasione migliore di trasferire in un live ultrarealistico quei luoghi che per Auster non erano altro che luoghi di connessione?

 

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