Dov’è la guerra? La Francia e il razzismo secondo Carmit Harash

A Sguardi Altrove abbiamo intervistato Carmit Harash, autrice indipendenti israeliana che vive in Francia.

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

di Chiara Zanini

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

 

Proiettato a Sguardi Altrove a Milano, e prima ancora al Torino Film Festival, Dov’è la guerra? è l’ultimo film dell’israeliana Carmit Harash. Autrice scomoda, vive in Francia da diciassette anni e i suoi film indipendenti spesso non hanno vita facile. Con lei abbiamo parlato della sua opera, di terrorismo, di Europa e delle donne dietro la macchina da presa.

 

Où est la guerre è considerato un film preveggente, perché racconta paure e contraddizioni che chi vive a Parigi provava ben prima dell’attacco a Charlie Hebdo. Ha detto che solo un regista straniero avrebbe potuto raccontare il posto che nella società francese hanno gli immigrati.

 

Sì. Sono e mi sento cittadina francese e potrei migliorare il mio accento, ma il mio aspetto mi rivelerà sempre e sarò sempre considerata un’immigrata. Per questo nel film uso me stessa e altri immigrati per parlarne. C’è ad esempio una donna di origine indiana di cui si sente inizialmente solo la voce al telefono. Non ha accento e quindi non si può immaginare se sia francese o meno. Lo è, non ha nessun’altra nazionalità ma per il suo aspetto è sempre considerata straniera.  Non dico che gli attacchi terroristici dipendano esclusivamente dal razzismo, ma c’è quasi sempre del razzismo nel modo in cui vengono riportate le notizie. Nel quinto anniversario dall’inizio della guerra in Siria i giornali diffondono le foto di John il Jihadista pronto a uccidere il fotogiornalista americano John Foley. Questo terrorista è cresciuto in Inghilterra e uccide un altro occidentale. Un europeo che uccide un europeo, non è certo siriano!

 

Un’altra scena del film porta al Museo della Storia dell’immigrazione, uno dei pochi rispetto alla mole di Storia ancora da raccontare. Sarkozy rifiutò di inaugurarlo. Ci sono anche molte storie di italiani. Come archivieremo questi ultimi anni, invece?

Difficile dirlo. Dipenderà sempre da chi deterrà il potere, che avrà dunque anche il potere della narrazione. L’inno nazionale francese, che recupero nel film cantandolo con mio marito mentre lo intonato calciatori di diverse origini, ha un testo violento. Gli europei non hanno la misura di quanto ha significato il colonialismo. Non hanno mai restituito nulla, né ne sono del tutto consapevoli. Si parla spesso di aspetti positivi delle colonie, come l’accesso all’istruzione, ma il colonialismo è sempre violenza. Penso al lavoro della scrittrice premio Nobel Toni Morrison a riguardo. Ed è per questo nel film metto alla prova i filosofi, che proprio come i cineasti dovrebbero affrancarsi dalla tradizione. La tradizione è sacra anche in termini di direzione dei film. Ci sono codici e regole che ci viene consigliato di rispettare.

 

Dov’è la guerra dice anche che manca una comunione d’intenti, ad esempio quando la manifestazione per i diritti degli omosessuali si incrocia solo per un attimo con quella dei diritti dei migranti.

Accade in Francia come in Israele o Palestina. La Palestina sarà occupata per sempre e Israele allora si presenta come un paese che rispetta le persone omosessuali, ma è pura propaganda. La società è familiy-oriented. Ci sono persone, etero e omosessuali, che adottano figli solo se sono a loro immagine e somiglianza. Anche a Parigi c’è molta propaganda. Supporto la causa lgbt ma la separazione tra manifestazioni e lotte mi preoccupa e non penso in futuro sarà meglio. I ragazzi che vanno in classi miste vivono realtà diverse e non si conoscono fino in fondo.

 

È vero che l’amore per il cinema è alla base della sua migrazione?

Sì. In Israele non vengono assegnati molti fondi per la cultura, il governo preferisce finanziare l’esercito. Mi sono trasferita perché in Israele (sono originaria di una città al confine con il Libano) non potevo fare i film che avevo in mente. Quando sono arrivata però non parlavo francese, e tuttora sono considerata prima di tutto un’immigrata. Ammiro chi riesce a fare film in Israele, io non ci sono riuscita. La scuola di cinema che ho frequentato lì era molto opprimente, dovevamo seguire degli standard e avevamo poca libertà. Sono diventata regista a dispetto di questa scuola, e non grazie ad essa. Poi ho lavorato per un po’ e solo in seguito mi sono trasferita. Sai, negli anni sessanta Pasolini avrebbe voluto Il vangelo secondo Matteo in Israele credendo di trovarvi certi paesaggi e certi volti, poi decise di girarlo in Italia perché lo scoprì troppo edificato e meno autentico di come se l’aspettava. Ho amato molto il suo libro Una vita violenta. Così come di Parigi, abbiamo un’immagine distorta di Tel Aviv, Infatti quando in Demain intervisto un mio fratello che vive lì, molti chiedono se non si tratti di Gaza. Ho scelto di partire dalla mia mia famiglia, perché trattandosi di mio fratello potrò coinvolgerlo ancora, e perché in Israele tutte le famiglie hanno a che fare con l’occupazione.

I suoi film sono autoprodotti e proiettati raramente anche in Francia.

Voglio essere indipendente, lavorare a modo mio, senza dover sottostare all’establishment e chiedere il permesso a nessuno. So che così escludo la possibilità di avere più spettatori, ma tengo alla mia indipendenza.

 

Come considera la legge sul cinema in vigore in Francia?

Non male. I registi possono sentirsi più sicuri di terminare il progetto, ma questo a volte può avere una conseguenza negativa in termini artistici: quella di non correre alcun rischio.

Nel suo ultimo film ci sono molte poesie, e poi c’è Toxic di Britney Spears spacciata a suo marito come poesia.

Sì, perché dovremmo prendere certe cose meno seriamente.. Amo la poesia ma non la pretenziosità delle persone, per questo ho scelto questo testo e l’ho parodiato.

 

Di cosa tratteranno i prossimi due film di questa trilogia?

Attack riguarda l’anno successivo all’attacco a Charlie Hebdo, e ho scelto la struttura del musical, ma senza musica francese. Cerco di fare sempre qualcosa che non ho ancora sperimentato. In Ou est la guerre ho lavorato sulle potenzialità del sonoro, ci sono molte telefonate. Ma gli smarphone sono anche schermi. Il terzo film, Christelle, è di nuovo irriverente: interpreterò Christelle Le Pen durante le elezioni, giocherò con le identità.

 

A Milano è invitata al festival Sguardi Altrove, dedicato al cosiddetto “sguardo femminile sul cinema”.

Carmit Harash: Spesso i festival sono escludenti nei confronti delle donne, al di là di quanto proclamato. A Cannes una volta dissero che quell’anno non c’erano grandi film diretti da donne perciò era difficile invitarle. Possibile? Potremmo fare come gli uomini, ossia non dire che il festival è rivolto ad un solo genere, e poi invitare solo le donne registe! E questa discriminazione si ha persino in festival diretti da donne.

--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array