Dov'è finito il cinema?…In un "Ignoto spazio profondo"?

Enrico Ghezzi, incalzato da Massimo Causo, regala i suoi illuminanti "Blob" di pensiero ad un pubblico di giovani studenti che si chiedono (e gli chiedono)…dov'è il cinema oggi?

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Enrico Ghezzi e Massimo Causo

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   Dov’è finito il cinema? Questo ci si è chiesti nella nuova sede di Sentieri Selvaggi, in un pomeriggio piovoso di inizio marzo 2010. Con un pubblico composto da giovani studenti che aspirano a “fare” cinema, ma che prima lo vogliono/devono inevitabilmente “rintracciare”.  E affidandosi ai flussi di co(no)scienza che è solito offrire il critico Fuori orario per eccellenza: Enrico Ghezzi.

   Immerso e quasi fuso con le immagini mute che alle sue spalle proiettavano L'Ignoto spazio profondo di Werner Herzog (l'autore in continua ricerca di un cinema possibile) Ghezzi, sollecitato da Massimo Causo, ha cercato proprio di rintracciare e perimetrare un nuovo spazio per il cinema oggi. Si è iniziato a parlare pertanto della “pesantezza”: il cinema disperso nei nuovi formati, chiuso in un dischetto o compresso in un file è divenuto una materia leggera, leggerissima. È quindi diventato più povero? Ha perso la sua antica aura o la sua poesia stampigliata sui fotogrammi della vecchia pellicola? Secondo Ghezzi no: «sarebbe da ottusi ciechi» opporsi alle innovazioni. Bisogna però dare loro un senso non accettando acriticamente tutto il nuovo, ma bensì sottoponendolo ad un fertile vaglio critico. Forse è questo il nuovo orizzonte della critica? Mi chiedo anch’io, seduto ad ascoltare, da aspirante critico?  Quindi non più l’analizzare il cinema, ma piuttosto lo scorgere dove questo sia andato a finire? Era inevitabile quindi che si arrivasse a parlare del 3D. Una tecnica che ultimamente ha invaso “militarmente” i cinema di tutto il mondo e che ha coattamente ridisegnato un nuovo spazio filmico, consegnandoci una terza dimensione appunto. Ghezzi “criticamente” non demonizza e non esalta il 3D come tecnica innovatrice, ma la mette in dubbio nel suo presupposto filosofico. Enrico GhezziSe il 3D «si propone l’obiettivo di accrescere la visione spettatoriale», in realtà non fa altro che ridurre lo spazio tra lo spettatore e lo schermo. Perché varcando quel limite, che è stato sacro per più di cento anni, uccide di fatto la «finzione che è sempre stata cinema». Insomma se il 3D «tende ad avvicinarci alla “vita”, a quella di tutti i giorni, fatta di corpi in tre dimensioni» è scontato dire che ci allontani dal cinema: «per fortuna il 3D oggi è solo abbozzato, se fosse una tecnica perfettamente riuscita il cinema non esisterebbe più». Il vero 3D per Ghezzi è da rintracciare in un film che «ci guarda, che ci osserva in maniera perturbante, come fa Alex in Arancia Meccanica o Jack Torrance in Shining». Come dire: il 3D esisteva già, ma era il patto di ferro tra noi e lo schermo cinematografico che lo istituiva. Arrivando nelle sue manifestazioni più alte (come in Kubrick appunto) a travolgere e scuotere nel profondo ogni spettatore che «si trovava ad essere guardato dal film».

    Ghezzi quindi rivendica la visione di Avatar in 2D o addirittura provocatoriamente in bianco e nero: «sarebbe fantastico vedere Avatar in bianco e nero. Ritornando qui Cameron dritto alle origini: ai Lumiere, alla loro straordinaria semplicità».  Rintracciare in Avatar una purezza visibile potenzialmente anche in bianco e nero, è la riflessione forse più bella di una serata passata a chiedersi Dove è finito il cinema? Una riflessione che ci consente di ristabilirne i confini accettando certamente ogni innovazione, ma di fatto considerandola solo un mezzo per ricercare altro.

   Godard, citato a più riprese da Ghezzi come cartina di tornasole sullo stato del cinema, diceva circa quarant’anni fa: “Il cinema mente 24 fotogrammi al secondo”. Se quindi in questo nuovo secolo il cinema può essere rintracciato ovunque: spalmato nei più vari formati, fruito nei più vari media, contaminato dalle più varie tecniche, allora vorrebbe dire che noi tutti siamo continuamente invasi dalla godardiana menzogna. Ma riferirsi oggi a Godard soprattutto come «creatore di belle immagini: prima di ogni complessa riflessione sui suoi film, le immagini di Godard erano fondamentalmente Belle!», consente a Ghezzi di ritrovare uno spazio per il cinema. Spazio che è sempre e comunque connesso ad un’inventiva associata ad una immagine. E solo dopo al dominio della tecnica.

   L'Ignoto spazio profondo (di Werner Herzog)Forse la lezione più preziosa per noi futuri critici è la consapevolezza netta che la ricerca di questo spazio non è più così ovvia come lo era quarant’anni fa. E che questo spazio forse bisognerà iniziare a cercarlo (herzoghianamente) nella miriade di “ignoti spazi profondi” che la nuova realtà mediale ci fornisce quotidianamente.  

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