Dragon Ball e la (post)medialità: anatomia di una saga immortale

Tra parabole transmediali e l’adesione ai codici passati, l’opera di Toriyama continua a conquistare i pubblici di tutto il mondo. Ma cosa la rende così attuale? Tra le motivazioni anche il cinema

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Giappone, inizio nuovo millennio. Un lustro è già passato dal termine della serializzazione cartacea di Dragon Ball, così come per il suo celebrato adattamento televisivo. Eppure l’opera di Akira Toriyama si appresta a diventare nel paese il manga più venduto di tutti i tempi. Le sue copie circolano senza fine nelle edicole di mezzo mondo. La serie animata è all’apice della sua diffusione planetaria. Lo stesso fenomeno dell’avanzamento temporale, ovvero quel processo che storicamente prefigura per i prodotti di consumo la (fin troppo) temuta relegazione nei meandri più oscuri del dimenticatoio industriale, sembra qui perdere ogni stigmatizzazione negativa, portando così il brand Dragon Ball ad entrare di diritto nell’alveo dei grandi fenomeni culturali della contemporaneità, e ad esaltare il suo autore ad interprete paradigmatico delle pratiche di consumo della medialità mondiale.

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Ma il successo dell’opera non si è certo fermato a venti anni fa. Se l’avanzata trionfale di Dragon Ball si fosse arrestata ai primi vagiti del 21º Secolo, il suo percorso non sarebbe stato comunque definito meno straordinario. Si sa, i tempi cambiano, e insieme a loro mutano le condizioni produttive, così come le strategie di consumo e i pubblici che le generano. Eppure ad oggi ci troviamo (ancora) ad essere testimoni di una parabola (pluri)testuale su cui è impossibile mettere la parola fine. Soprattutto, e bisogna sottolinearlo con un misto di stupore e clamore, nell’attuale panorama industriale italiano. Il successo che il 21º lungometraggio del franchise, Dragon Ball Super: Super Hero sta facendo registrare nelle sale nostrane, non è “solo” la prosecuzione naturale dello straordinario percorso commerciale del film in questione (che tra l’altro ha stravinto all’esordio in Giappone, in Francia e negli USA), ma sembra essere sintomatico di una più profonda evoluzione in seno al suo paradigma testuale, che giustifichi, nel disvelamento dei suoi canoni (post)mediali, i fenomeni alla base del “nuovo Rinascimento” che l’opera di Toriyama sta attualmente attraversando.

Cosa c’è, allora, all’origine di questo fenomeno editoriale? Cosa ha davvero spinto, ad esempio, la Star Comics, ovvero lo storico editore italiano di Dragon Ball, a stampare proprio nel 2022 l’edizione “definitiva” del manga, a 40 anni dalla sua prima pubblicazione? Come spesso capita per i grandi prodotti mediali di origine novecentesca, forse bisogna trovare le motivazioni – e di conseguenza, le risposte – alla base delle loro trasformazioni nella più grande macchina di ri-mediazione spettacolare al mondo: cioè nel cinema. Tra i motivi al centro del riposizionamento strategico del franchise nelle azioni di consumo dei pubblici attuali, non possiamo perciò non citare la transizione verso le logiche della transmedialità da parte del brand, sempre più votato ormai a quelle stesse dinamiche intratestuali che permettono ad un adattamento cinematografico di “canonizzare” il proprio racconto in continuità con la/e storia/e ufficiali del manga originale. Prima di Dragon Ball Z: La battaglia degli Dei, infatti, nessuno dei precedenti 17 lungometraggi si era posto come sequel diretto della serie anime. I film erano progettati, concepiti e diffusi in un’ottica di sovrapposizione cross-mediale, che avrebbe permesso agli spettatori televisivi, così come agli utenti dei videogiochi della Namco Bandai, di ri-attivare attraverso il cinema quei processi emotivi già sperimentati sul piccolo schermo o nell’orizzonte videoludico, senza che venisse offerta loro qualsiasi deviazione diegetica dal “canone ufficiale”. Adesso la propensione all’intreccio transmediale – e quindi, alla prosecuzione naturale sul grande schermo delle storie dell’anime – consente non solo di rinnovare lo statuto mediale della saga, a metà tra l’immaginario seriale nineties e le pratiche animate in salsa 21st Century, ma di prefigurare, con un certo anticipo, quelle stesse strategie produttive che hanno portato i due battle shōnen più popolari del momento, cioè Demon Slayer e Jujutsu Kaisen, a suggellare il loro stratosferico successo proprio attraverso il cinema, veicolo e approdo ideale di ramificazioni narrative sempre più dirette alla logica transmediale.

Ma la sola transmedialità non può rispondere a tutti gli interrogativi di partenza. I motivi per cui Dragon Ball sta vivendo in questi ultimi anni una nuova e inaspettata primavera, li possiamo (e forse, dobbiamo) ritrovare nella capacità di Toriyama e dei produttori della Toei Animation di districarsi tra più orizzonti mediali. Di muoversi cioè tra la sovrapposizione di estetiche e linguaggi dell’era cross-mediale, e le nuove frontiere dell’espressione audiovisiva di cui sopra. Non è un caso, infatti, che le opere capostipiti del nuovo ciclo, ovvero La battaglia degli Dei e La resurrezione di F, siano state seguite da un lungometraggio come Dragon Ball Super – Broly (2018). Se le prime due sono frutto di logiche transmediali, al punto da presentarsi come agenti di propulsione/promozione della nuova serie animata – ovvero Dragon Ball Super (2015) – il terzo film struttura le proprie strategie produttive direttamente sulle esigenze spettatoriali della frazione più consistente della fanbase. Ovvero di quella generazione di spettatori/utenti, che a cavallo tra i due millenni, ha costruito l’investimento emotivo nei confronti del franchise proprio a partire dalle sue declinazioni videoludiche, dove il personaggio di Broly emergeva per forza e fascinazione magnetica.

Per gli autori di Dragon Ball allora risulta necessario guardare ai linguaggi del passato per definire il successo delle loro strategie future. D’altronde sono gli stessi mondi di Toriyama a muoversi da sempre secondo una logica dualistica, a metà tra l’iconografia Taoista e Buddhista del classico cinese di fine 16º Secolo “Il viaggio in Occidente” e l’imperialismo tecnologico del Giappone anni ’70 e ’80. In questo senso l’adesione simultanea alle logiche cross-mediali del passato e a quelle transmediali dell’attualità, decreta per il brand quella sola soluzione che permette ad un franchise di matrice novecentesca di sopravvivere nell’orizzonte post-mediale della modernità. In direzione cioè di quell’unico approccio che possa mettere in comunicazione le estetiche passate (e il pubblico “analogico” di riferimento), con il contesto iper-pervasivo e ultradigitalizzato dei tempi correnti, dove è la dislocazione di informazioni/narrazioni in contesti infografici di segno diverso a costituire il prerequisito necessario per interpretare le aspettative e le logiche di consumo dei nuovi pubblici. Solamente così si può davvero sognare il futuro. E per raggiungerlo, è necessario partire dai dispositivi e dalle narrazioni del passato. Come a dire che i tempi cambiano, ma Dragon Ball non passa mai. Resta sempre lì, insieme a noi, a riflettere le trasformazioni di un industria che ha ancora bisogno dei suoi trascorsi novecenteschi per costruire le basi del rinnovamento. Una rivoluzione che, ad oggi, continua a passare per il grande schermo.

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