Dunkirk, di Christopher Nolan
Dunkirk ci detta subito le sue “regole del gioco” confinando le nostre percezioni in una scacchiera dove ogni fatto, movimento o stacco si riduce alla mossa (sempre) giusta. Lasciandoci molti dubbi…
Spiaggia di Dunkerque, Francia, tra il 27 maggio e il 4 giugno 1940. Si inizia. Campi lunghissimi e sonoro immersivo, abissale profondità di campo e colonna sonora martellante, maestose coreografie di massa e poi tre singole storie ambientate in aria, mare e terra: questa è la strutturatissima scacchiera della guerra mossa da Christopher Nolan. Ed è così che nella nota “evacuazione” delle forze Alleate schiacciate sul canale della Manica – la cosiddetta Operazione Dynamo, avvenuta con imbarcazioni civili provenienti dalle coste britanniche, un episodio cardine della Seconda Guerra Mondiale – l’esercito tedesco diventa invisibile (ne avvertiamo la presenza solo attraverso gli effetti sonori, le armi del cinema) e persino quello francese si riduce a una semplice comparsa frettolosamente liquidata (qualcuno ha parlato di conseguenza del nuovo isolazionismo britannico post-brexit, chissà…).
Nolan, insomma, punta a configurare la complessità dell’evento storico immergendosi nell’azione contingente e spezzando (come suo solito) la continuità temporale in un puzzle di tre distinte traiettorie montate in maniera non lineare: un’ora della vita del pilota Farrier (Tom Hardy) che sorvola la spiaggia abbattendo gli aerei della Luftwaffe; un giorno della vita del volontario Mr. Dawson (Mark Rylance) che parte dalle coste britanniche con la sua piccola imbarcazione e un equipaggio di fortuna; una settimana della vita del soldato Tommy (Fionn Whitehead) e di un plotone del British Army guidato dal comandante Bolton (Kenneth Branagh) mentre si organizza la ritirata sotto le bombe tedesche. Da questo punto di vista Dunkirk è veramente il testo nolaniano più puro e scarnificato, quasi una matrice: via gli sfiancanti spiegoni del passato (forse non a caso Jonathan Nolan non figura qui in veste di sceneggiatore) e via ogni umore sci-fi o supererostico (da universo-parallelo, per intenderci), rimane intatta solo la presa di posizione estetica nel cogliere l’uomo e le sue contraddizioni in quel proverbiale “controllo” (kubrickiano? Si ma…) reiterato in schemi e teoremi sempre più ossessivi. Ed è questo il punto.
Dopo i livelli del sogno di Inception e dopo i paradossi dello spaziotempo di Interstellar, qui il discorso sul regista inglese si fa più delicato ed è doveroso fare due premesse: che Christopher Nolan fosse un sapiente architetto di inquadrature autosufficienti e di immersioni sonore di rara potenza, capaci di creare un’immediata fascinazione nello spettatore è sempre stato abbastanza chiaro. E questo ritorno/rovesciamento del war movie classico, paradossalmente, ne certifica ancora di più l’altissima perizia tecnica. Punto secondo: che nel 2017 si tenti ancora di creare eventi cinematografici di questa portata, rivalutando lo spazio della sala e reinvestendo sull’esperienza del grande schermo (il 70mm, l’IMAX) è di per sé un punto di vista centrale nel dibattito odierno sulla persistenza del cinema nei nuovi ambienti mediali. Insomma Nolan è un cineasta importante per la nostra epoca e come tale va considerato.
Date per scontate tali premesse, però, c’è qualcosa che non torna in questo film… o forse torna tutto un po’ troppo. Nel senso che Dunkirk ci detta subito le sue ferree “regole del gioco” – in dinamica diametralmente opposta alla libertà di sguardo di Reinoir (o alle alterità perturbanti di Fincher) – confinando le nostre percezioni in una rigorosa scacchiera della Storia dove ogni fatto, movimento o stacco di montaggio si riduce infine alla mossa (sempre) giusta di un abilissimo giocatore teso solo a stupire. Chiaro che in quest’epoca di educazione informatica alla programmazione e previsione di ogni spazio, causa o effetto, il proverbiale “controllo” totale sulla materia possa quasi sembrare il correlativo oggettivo. Ma la domanda è un’altra: questa preordinatissima esperienza estetica ci basta? Ci completa? E soprattutto: abbiamo noi lo spazio e il tempo di completarla come spettatori?
Insomma se il cinema (oggi più che mai) ha bisogno di tempo per ricostruire esperienze umane, Nolan dimostra ancora una volta di non avere mai tempo-da-perdere e di concepire ogni personaggio o snodo narrativo come la nota di una serratissima partitura filmica (il contributo del metronomo Hans Zimmer è qui sin troppo evidente…) che coglie raramente il lascito umano delle imponenti geometrie che disegna. L’orrore della guerra contrapposto alla solidarietà dei singoli, pertanto, diventa un effetto indotto e mai un sentimento suscitato: a Nolan interessa troppo il meccanismo che pre-ordina le immagini per concedere il giusto tempo alle pulsioni che si agitano tra le immagini. Punta all’astrazione delle percezioni, ma ritorna sempre all’ordine dei suoi fattori iniziali. E allora Kenneth Branagh, Mark Rylance e Tom Hardy cercano di sparigliare il campo di battaglia con sottili movimenti emotivi che ridiscutano quest’ennesimo e muscolare the prestige, ma sono prontamente (e letteralmente) sedati dall’inesorabile ticchettio del dispositivo che li guida dall’alto e impone la chiusura di ogni cerchio. Si ha quasi l’impressione che la guerra, la storia, persino la vita, siano sempre e solo dei semplici tasselli funzionali al singolo numero da portare a casa. Un prestigio mirabolante e di gran fattura, per carità, ma alla fine del film vien voglia veramente di tornare a chiedersi “che cosa è il cinema?”… perché forse è tutto un problema di sguardo sul mondo.
Titolo originale: id.
Regia: Christopher Nolan
Interpreti: Fionn Whitehead, Tom Hardy, Mark Rylance, Kenneth Branagh, Cillian Murphy, Aneurin Barnard, Harry Styles
Origine: Gran Bretagna, Francia, USA 2017
Distribuzione: Warner Bros
Durata: 106′