Duri si diventa, di Etan Cohen

Non raggiunge mai il grado di ebollizione demenziale/parodistica a cui potrebbe ambire, eccezion fatta per gli istanti di nonsense più kitsch e scorretto di pura firma Adam McKay, autore del soggetto

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Etan Cohen, sceneggiatore benstilleriano (Tropic Thunder, Madagascar 2), esordisce nella regia del lungometraggio aggrappandosi ad un espediente decisamente debole (partorito dall’abituale complice di Will Ferrell, Adam McKay) che il suo film però non sembra neanche sfruttare pienamente a dovere: in previsione della quotidianità di soprusi e piramide sociale della violenza verso cui è destinato il miliardario James King che sta per finire in carcere per via di una frode finanziaria di cui è ignaro prestanome, l’uomo si sottopone ad una folle preparazione atletica architettata dal comico afroamericano Kevin Hart seguendo cliché e stereotipi del prison movie (le mappature razziali del cortile, l’isolamento, la “anoccultazione”…), che lo portano a trasformare in penitenziario le stanze della megavilla da ricconi di King.

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L’idea non raggiunge mai il grado di ebollizione demenziale/parodistica a cui potrebbe ambire, eccezion fatta per gli istanti di nonsense più kitsch e scorretto di pura firma Ferrell/McKay (l’esperienza con la fellatio, la rivolta dei detenuti a ritmo dance…): Will Ferrell è un comico decisamente impossibile da utilizzare come spalla, la sua gestione personalissima e spesso genialmente sfalsata dei tempi comici e degli spazi dell’inquadratura permette a fatica l’inserimento di un compare con cui condividere gli sketch (per un esempio sublime, I poliziotti di riserva, ce ne sono diversi meno riusciti, vedi l’ultimo Candidato a sorpresa).
Qui la sensazione diffusa per tutta la prima sezione del film è quella di un veicolo di lancio per la parlantina irrefrenabile di Kevin Hart (visto ne Il grande match con Sly/De Niro), con Ferrell che, all’apparenza anche stancamente, spesso si tira indietro per lasciare la ribalta all’amico e alle sue gag che prendono di mira la percezione bianca del nero “proletario” che per forza dev’essere un delinquentello affiliato ad una gang, i cui ricordi del passato coincidono per intero con Boyz’n the hood. A dimostrazione di una vena cinefila sottotraccia allo script che poi purtroppo non riesce mai davvero a trovare uno sbocco felice nella costruzione della struttura comica del film.

L’impianto funziona meglio nel momento in cui si allontana dal set della villa-prigione, e quando Duri si diventa imbocca la via della satira sulle derive razziali della società USA, tra grossolani raduni della supremazia ariana e l’esilarante rivalsa dei domestici ispanici di James King, manda a segno le sue cartucce migliori, rivelando anche una sua latente urgenza in tempi di rinnovate stragi a fucilate nelle chiese dell’entroterra d’America.
Seppure a salve, rimane quantomeno una nuova volta una dimostrazione della capacità strabiliante dell’industria popolare americana di assimilare e digerire lo zeitgeist (una commedia su questi toni da noi è ancora lontana anni e anni luce…).

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