DVD – "Animal – Il criminale", di David J. Burke
Ving Rhames ci ha messo molto di suo in questo film: attore protagonista, produttore e autore del soggetto, una scommessa che forse l’indimenticabile Marcellus di Pulp Fiction pensava di vincere: purtroppo per lui dietro la mdp c’era David J. Burke, che già poco aveva impressionato con il modesto Edison City. Da 01 Distribution
IL FILM
Ving Rhames ci ha messo molto di suo in questo film: attore protagonista, produttore e autore del soggetto, una scommessa che forse l’indimenticabile Marcellus di Pulp Fiction pensava di vincere: purtroppo per lui dietro la mdp c’era David J. Burke, che già poco aveva impressionato con il modesto Edison City. Peccato perchè la storia, benché trita e ritrita, poteva avere buone potenzialità dal punto di vista della tensione drammatica e della partecipazione emotiva. Ma Burke non é lo Spike Lee degli anni d’oro e nemmeno si avvicina a Mario Van Peebles, regista della “new blaxploitation” (in netto anticipo su John Singleton) e a torto sottovalutato.
James Allen (Ving Rhames) detto Animal, è un criminale senza scrupoli che finisce in galera per i delitti commessi, lasciando così in difficoltà la moglie e il piccolo Darius (Terrence Howard). Scontata la pena e ravvedutosi grazie a Berwell (Jim Brown), un attivista per i diritti degli afroamericani, tenterà di riavvicinare il figlio che nel frattempo ha seguito le orme del padre. Sinossi che come sopra anticipato, non dice nulla di nuovo ma che é comunque fonte di ispirazione inesauribile se si hanno idee da applicare alla macchina cinema. Non é il caso di Burke che mette in scena un pasticciaccio senza capo né coda, lavorando per accumulo e compressione, mostrando troppi eventi in un tempo assai limitato – la vita di James prima, durante e dopo la prigione, le implicazioni razziali, il tormento del figlio per essere stato abbandonato, gli amici di James che tentano di riportarlo sulla (scor)retta via – con il risultato di rallentare o meglio, bloccare, il fluire della narrazione. Si ha la sensazione insomma di una stagnante immobilità di racconto, perché appunto troppo compresso, che si ripercuote inevitabilmente anche sulla caratterizzazione dei personaggi (peraltro grossi calibri come Chazz Palminteri, Wes Studi e lo stesso Rhames) che non riescono ad emergere ed a esprimere le proprie potenzialità per infondere quel minimo di densità drammaturgica che possa giustificare il lavoro del regista.