DVD – Cofanetto Aristakisjan

Cofanetto AristakisjanEsistono da qualche parte dei film che ci chiedono di rimuovere la nostra percezione delle cose; di sottrarci alla tentazione di cercare nell’arte come altrove una conferma alle nostre illusioni collettive; di esporci, come a radiazioni, a un linguaggio primitivo che agisce accanto, dietro e oltre le immagini e ci modifica radicalmente: “l’infinito racconto che si racconta da solo”. L’opera del regista moldavo Artur Aristakisjan finalmente in dvd, nella collana Eccentriche Visioni di RaroVideo

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Cofanetto AristakisjanTitolo originale: Ladoni, Mesto na Zamle
Anno: 1993 (Ladoni), 2001 (L’ultimo posto sulla terra)
Durata: 261’ circa – 122’(Ladoni), 139’ (L’ultimo posto sulla terra)
Distribuzione: RaroVideo
Interpreti: Anna Chernova, Vitali Khayev, Roman Atlasov
Regia: Artur Aristakisjan
Formato DVD/video: 4/3 1.33:1
Audio: Ladoni – dolby digital 2.0 italiano e originale russo con sottotitoli in italiano; L’ultimo posto sulla terra – dolby digital 2.0 russo (originale) con sottotitoli in italiano
Sottotitoli: Italiano
Extra: Ladoni – L’anima è la carne. Conversazione tra Artur Aristakisjan ed enrico ghezzi. L’ultimo posto sulla terra – Verità e bellezza. Artur Aristakisjan; 1 Booklet di 32 pagine con un’intervista epistolare di Christina Stojanova e frammenti dal diario del regista
           
 
 
 
 
 
I FILM
 
Ladoni
Girato tra i diseredati della nuova Russia, gli emarginati che durante il regime precedente affollavano i gulag, realizzato per il primo diploma di laurea di Aristakisjan, è diviso in dieci capitoli accompagnati da un commento lirico che si interroga sui meccanismi dell’esclusione sociale.
L’ultimo posto sulla terra
Parabola della comune “Tempio dell’amore” creata in un edificio diroccato di Mosca che diventa rifugio per i poveri e gli emarginati della metropoli. Scene di reale miseria quotidiana si intrecciano a storie che l’autore chiama “favole o racconti di fate”.
 
Esistono da qualche parte degli oggetti misteriosi, dei film che ci chiedono
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LADONI - Artur Aristakisjan
di rimuovere la nostra percezione delle cose; di sottrarci alla tentazione di cercare nell’arte come altrove una conferma alle nostre illusioni collettive; di spostarci in una zona che può essere non ripresa, non raccontata – e tuttavia non rimane inespressa. Si tratta di lasciarsi esporre alle radiazioni di un lembo di pellicola che stilla sangue e provoca mutazioni genetiche, di ammettere d’essere coinvolti in ogni caso, che lo si voglia o no, in quella relazione tra le cose, in quel linguaggio primitivo che agisce continuamente e ci modifica radicalmente: “L’infinito racconto che si racconta da solo”. Questa storia, la storia di Ladoni e L’ultimo posto sulla terra, perché i due film di Aristakisjan, le sue parole, il racconto della loro gestazione sono tutt’uno con quel racconto infinito di cui la vita umana fa parte, è il racconto di un uomo che è un occhio, un padiglione auricolare e una lingua che batte là dove duole soprattutto la nostra inutile civiltà, il nostro patetico ancoraggio alle maglie di una struttura mondana che ovunque cede sotto il crollo delle illusioni.
E’ forse la storia prima di tutto di quello “spettatore invisibile” che secondo il regista moldavo abbiamo smarrito o superato. È il diario segreto di un’apparizione, di un miraggio, e di un miracolo stupefacente, un attentato dinamitardo alle nostre paure, alle nostre velleità spirituali senza ombra di spirito, alle nostre esigenze corporee infiacchite dalla corazza di giustificazioni che un gigantesco intestino sociale mastica e si risputa addosso. E’ anche un canto splendente e immarcescibile di sinistra consapevolezza dell’impotenza a cui ci si richiede di conformarci, per meglio lusingarci con le promesse di desiderio soddisfatto, così da farci permanere nello stato di impotenti osceni gonfi LADONI - Artur Aristakisjanconsumatori d’illusione, e a volerlo ascoltare c’è da accettare che ciò che non conosciamo ci turba perfino più che la nostra concreta infelicità. Non sono né documentario condotto con la distanza paternalistica di chi mostra gli animali nel loro zoo, né testimonianza, né sfoggio surrealista d’immaginazione, ma soltanto due film che non cercano d’essere eversivi, eppure restano raccapriccianti nella loro capacità di distillarci direttamente dentro l’amore e il dolore di cui siamo capaci, costringendoci a fare un salto kamikaze oltre il modello del film, delle citazioni letterarie, dei riferimenti filmici colti e incolti, oltre i modelli filosofici, le dottrine, gli insegnamenti, i moniti, le denunce, al di là e meglio di qualunque intento politico, aggirando ogni proposito di provocazione da imbonitori. Oltre tutto questo, due film così limpidi e mostruosi, paradossalmente tanto sublimi e tanto poco esigenti, perché non chiedono che di essere vissuti corpo a corpo; e ci aprono la strada a un colossale salto in avanti (o all’indietro) oltre il testo stesso, nella materia spessa e trasparente della pura empatia, della compassione brutale. Sono visioni che, lo dice lo stesso Aristakisjan, potrebbero anche non essere filmate, scampoli di un nostro possibile risveglio nel momento in cui l’immagine esce fuori dal girato e il girato dal film, di un nesso tra il nostro pensiero che va divaricato e strappato e i fantasmi reali in cui ci imbattiamo nel nostro inland empire; sono dunque la non-testimonianza di un possibile, necessario spalancarsi dei nostri sensi, due ordigni esplosivi in grado di raccontare una rivoluzione interiore, e necessariamente soggettiva, come MESTO NA ZAMLE - Artur Aristakisjanè soggettivo lo sguardo sul mondo, prima ancora che avvenga; sgomentando per la violenza del rifiuto che si vorrebbe opporgli pur di non aprire gli occhi  La gente anche durante il sonno si sveglia con cautela. Figuriamoci nella vita. Svegliarsi nella vita è un salto mortale.” – occhi prima aperti e poi richiusi, nella cecità che ci permette di sentire, soffrire e vibrare, come è una scelta coccolarci cerebralmente e restare nelle nostre pietose prigionie morali e sociali; un volo ad alto rischio che ci consente di metterci di fronte al tabù del millennio: il contatto affettuoso. Film che svelano alla cultura contemporanea la sua natura, come lucidamente sostiene A: nient’altro che una sorta di preservativo. Che l’anima è la carne, e questi due film che non possono essere detti ma vanno immediatamente visti, è la condensa che tocchiamo alla finestra: lo specchio di un contatto affettuoso che ci sgomenta al punto di “fingere di non averlo mai conosciuto”, che il contatto è divenuto pornografico, fonte di vergogna e di senso di colpa; uno specchio caleidoscopico che può anche infrangersi ferendoci le dita, ma ci restituisce la possibilità di sfiorare l’altro da noi, quello che temiamo sopra ogni cosa.
 
I DVD
 
enrico ghezziPer Ladoni (film di laurea di un giovane Aristakisyan, qui la storia della sua genesi), la curata edizione di RaroVideo ha prima di tutto il merito, rispetto all’edizione inglese di Second Run DVD (pur ottima) di offrire la possibilità di scelta tra la versione originale (con sottotitoli in italiano) e la versione precedentemente trasmessa da Enrico Ghezzi a Fuori orario che rappresenta di per sé un’esperienza sinestesica di grande potenza: viene conservata come nell’originale russo la voce del narratore, ad essa si sovrappone quella di un narratore gemello italiano. Il risultato è evocativo, straordinario, una sorta di melodia che permette di concentrarsi sulla potenza delle immagini. Così come per L’ultimo posto sulla terra, è eccellente la qualità di audio e video, il riversamento in dvd rispetta gradazioni e toni del bianco e nero di entrambi i film, sgranato e ricco di contrasti, così come su pellicola. Il punto forte della prima edizione italiana di questi due capolavori è rappresentato dagli extra, in cui Aristakisjan si presta di persona e senza fretta, in compagnia di Enrico Ghezzi, non a un semplice commento ai film, ma a una serie di riflessioni estemporanee.
Nel primo disco, che contiene Ladoni, un contributo di venti minuti, L’anima è la carne, conversazione tra Enrico Ghezzi e Aristakisjan in cui si riflette sul senso della storia laddove ogni storia altro non è che il racconto di una caduta – per Ghezzi, l’immagine stessa che è una caduta – l’eventuale che cade in immagine – e il montaggio è un gesto mortale che coglie il divenire continuo, il movimento dello sguardo dell’uomo più ancora che quello delle macchine da presa. Oltre la necessità tecnica e stilistica del montare, se “ogni storia è la storia di una caduta collegata a una trasformazione” per A. raccontare e montare è entrare nello spirito delle mutazioni che vivono in un quadro di Bosch, e la peste incombente (che ci assedia, qui e ora) che costringe i protagonisti del Decameron a raccontarsi storie in un bunker è al tempo stesso la storia di una scelta fatale, di aprire occhi e orecchie a quello che è restato fuori, a lato di un libro, di un film, o di un’esistenza: il non scritto, il non riportato, “l’infinito racconto che si racconta da solo”. Un montaggio che tenta di cogliere anche ciò che non seleziona, come i pianti, i lamenti e i racconti dei malati negli ospedali che il regista catturava con un registratore nel tentativo di prestare orecchio a una storia universale che corre costantemente, prima, durante e dopo quella che si accingeva a filmare. Artur Aristakisjan
Nel secondo disco, che contiene L’ultimo posto sulla terra, gli extra regalano un estratto da un lungo incontro tenutosi il 3 Febbraio 2008, sempre con enrico ghezzi, in occasione di un workshop cinematografico con Artur Aristakisjan, in cui tra Rossellini e Ford, Antonioni e il Libro Tibetano dei morti, Mondo Cane e il Decameron, il regista ha raccontato la sua visione del mondo, e del cinema, che ne restituisce l’intensità quando mette in discussione il rapporto tra la natura mutevole delle cose e la percezione che ne abbiamo.
Nel booklet di 32 pagine, a cura di Fulvio Baglivi, con un’intervista epistolare di Christina Stojanova, lo stesso Aristakisjan chiarisce alcuni aspetti dei suoi film, in particolare alcune letture che ne sono state fatte, in cui i motivi cristiani disegnano una sorta di vangelo apocrifo, di meditazione sui temi del sacrificio, del rifiuto, del sesso, dell’esclusione; e risponde agli attacchi di natura più o meno etica o morale sulla sua rappresentazione al di là del bene e del male di individui in cui lo spettatore sociale non vuole riconoscersi – Se i miei personaggi fossero descritti come rifiuti della società, i miei film sarebbero accettati” – così come se fossero rappresentati come animali esotici e bizzarri, come gli appartenenti a una setta o a una tribù che non ha nulla a che vedere con l’umano; con lo sguardo della distanza reso possibile da un sistema di giudizi e trasgressioni altrettanto consentite al suo interno. Invece, Persone giovani, sane e belle fanno sesso tra le rovine, i rottami e il liquame”;  in una delle scene più sconvolgenti di L’ultimo posto sulla terra, con il canto fuori dal pianeta di Alifib di Robert Wyatt, alcune ragazze lavano e asciugano uno storpio con i propri capelli: la rappresentazione di un amore che non ha nulla a che fare con la carità e per il quale si paga un prezzo molto alto: lo sguardo di una di loro non è cariatevole, e neppure provocatorio, ma disperato; “non si nobilita nulla, i mendicanti hanno perso la coscienza, vogliono sesso”.
A. descrive la scomparsa dello spettatore a favore di un sempre più generico consumatore, che “teme più la minaccia che la realtà stessa della depressione”; è il consumatore che si rifiuta di lasciarsi mutare insieme alla pellicola, che può magari non ammettere di essere tra i vivi, ma non accettare di non potersi identificare direttamente con ciò che vede, come un bambino, che riporta tutto a se stesso: per la prima volta lo spettatore si imbatte in un cinema nel quale c’è spazio per tutti ma non per lui […] ma perfino i bambini non possono a lungo permettersi il lusso di non sapere chi sono”.
 
MESTO NA ZAMLE - screencapDal booklet:
 
Esiste uno spettatore sociale il cui censore interiore è più forte e acuto di qualsiasi altro censore ideologico.
 
[…] Di storpi soli, di storpi in quanto tali, di storpi, come d’amore – non ne abbiamo. Ma dopotutto, lo storpio è anche un personaggio. Non la persona a cui hanno tolto una gamba o che non ha una gamba. Lo storpio è quella persona che è storpia per il suo ruolo. Storpio, in questo senso, è uno zar, un barcaiolo, una guardia, uno studente. Sono comunque storpi. È uno storpio come personaggio ed è sempre stato uno storpio. Diciamo che in campagna vive uno zio Vanja senza una gamba. Se avesse avuto la gamba non sarebbe stato Vanja. E lo guardano come se fosse nato già senza gamba. È sempre stato senza una gamba. Non è semplicemente diventato storpio, è storpio e basta. Il fatto non è che gli manca una gamba, ma che non avere una gamba è la sua missione. Essere storpio non è una fase della sua biografia o una condizione. Lui è soltanto quello: uno storpio. È un fattore della nostra realtà psicologica. Lui vive nella nostra terra interiore, psicologica. […]
 
E’necessario che lo spettatore invisibile, intimo, acquisti la vista.
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