È nata una stella, di George Cukor
Remake del film di Wellman del 1937 con cui vince il confronto per il ritratto spietato della fabbrica de sogni. Primo film a colori del regista. Oggi, ore 12.35, Cine Sony
“Non si deve vedere la faccia!”: grida un regista durante la ripresa di una mano femminile che sventola un fazzoletto dal finestrino di un treno. La mano è quella di Judy Garland nei panni di una delle tante comparse dello star system hollywoodiano prima diventare (ma A che prezzo Hollywood?) una star. La scena appartiene al versante comico di un melodramma musicale e meta-cinematografico dalla lunga e intricata storia produttiva: prima pellicola a colori e in Cinemascope di George Cukor, ad alto budget per oltre 10 mesi di produzione, È nata una stella è il remake in formato musical dell’omonimo lavoro di William Wellman con Janet Gaynor e produzione Selznick (1937), a sua volta ispirato ad un’altra opera di Cukor, What Price Hollywood?, che inaugura nel 1932, insieme alla maturità artistica del cineasta newyorkese, il prolifico sodalizio con lo stesso Selznick fino al set di Via col vento. Un terzo remake sarà girato nel 1976 con Barbra Streisand ed esiti mediocri.
La versione di Cukor offre l’auto-ritratto più efficace, e spietato, della fabbrica di stelle, vincendo il confronto, venti anni dopo, con l’originale di buon livello targato Wellman. Tagliata pesantemente dalla Warner dopo la prima uscita, fu restaurata nel 1983. Riproposizione “femminista” del mito di Pigmalione (già affrontato in Nata ieri ed esplicitamente ripreso in My Fair Lady), il film racconta, per la sceneggiatura di Moss Hart, la parabola ascendente della diva Vicki Lester (all’anagrafe Esther Blodgett) all’intersezione – sentimentale e fatale – con quella discendente del marito Norman Main (James Mason), divo con problemi di alcol a cui deve il successo d’esordio. Galeotto un affollato spettacolo di beneficenza – rotondo affresco della Hollywood anni ’50 – sulle note (e i passi) di Gotta have me go with you.
Curiosamente Cukor non si sentì all’altezza delle parti musicali che fece girare ad altri: eppure il futuro autore di My Fair Lady, un classico del genere che gli guadagnò il suo unico oscar alla regia, aveva già diretto insieme a Ernst Lubitsch Un’ora d’amore, riuscito musical della discordia (con Lubitsch a causa dell’assenza di Cukor dai credits). Il risultato sono autentici pezzi “unici” come The Man That Got Away e Born In a Trunk per cui Judy Garland ottenne, dopo quattro anni di assenza dai set, una candidatura all’ Oscar come miglior attrice protagonista. E la mancata assegnazione scatenò, secondo i rumors dell’epoca, reazioni in stile Norman Main agli Academy Award. L’ex adolescente di Hollywood “over the rainbow” era allora, proprio come il personaggio di Norman, in piena dipendenza da alcol e psicofarmaci: un declino che, se compromise la tranquillità delle riprese, non solo non inficiò le performance di canto e danza ma aggiunse credibilità all’interpretazione confondendosi col melodramma. Tragedia in qualche modo indiretta per il personaggio Vicky Lester che assiste impotente al degrado del marito sino al sacrificio finale, la struggente scena del suicidio in mare. Il “regista di donne” (forti) non si smentisce: come in Nata ieri non solo la gallina (la svampita ballerina Judy Holliday) non veniva spennata ma aveva la sua rivalsa facendosi beffe del suo sfruttatore e della sua scommessa di Pigmalione, così in È nata una stella ad essere stritolato dalla macchina dei sogni è l’uomo, non la donna. Forse è anche per questo che il ruolo interpretato da Mason fu precedentemente rifiutato da Cary Grant e Humphrey Bogart, preoccupati per la preponderanza in genere della (contro)parte femminile.
È tutto per Norman il viale (mare) del tramonto così come gli aspetti più tragici di una vicenda che si fa riflessione del cinema su se stesso e i suoi divi inventati. L’ analisi dello star system in prospettiva femminile non appartiene tanto al registro drammatico quanto a quello sofisticatamente comico di cui Cukor era maestro. Come il racconto della ricerca di un posto a Hollywood da parte della futura Vicky Lester: bellissimo esempio di meta-cinema quello in cui Esther-Garland va a fare un provino e finisce bersagliata da un fuoco di spari nel fascio di luce di un proiettore, mentre l’agente di spettacolo chiosa: “Non si preoccupi, le prepariamo noi un nome nuovo.”. Ricalca l’analogo episodio del film di Wellman invece la scena, superbamente ironica, della “costruzione del volto”. Perché a Hollywood la faccia, o sei una comparsa e “non si deve vedere”, o sei una stella e allora te la devi inventare. Volto compostamente tragico alla fine quello della diva che, dopo la morte del marito, decide di presentarsi al pubblico come la moglie di Norman Main; e più esplicitamente meta-narrativo nel film del 1937, dove l’epilogo incornicia il viso, che piange e ride, di Esther dentro le didascalie di una sceneggiatura. Similmente, un anno prima del film di Cukor, un’altra opera, mettendo sotto lente critica il mondo del cinema come fabbrica di illusioni, conclude sulla faccia di Lucia Bosè, delusa Signora senza camelie, che piange e ride davanti alle telecamere. “Cosa non si fa per la beneficenza”.
Titolo originale: A Star Is Born
Regia: George Cukor
Interpreti: James Mason, Judy Garland, Jack Carson, Charles Bickford
Durata: 148′
Origine: Usa 1954
Genere: musical