“È stato il figlio”, di Daniele Ciprì

è stato il figlio
È come se a quella di Ciprì si fosse aggiunta l’altra maniera, quella dominante, al grottesco personale si fosse sovrapposto, fino a prosciugarlo, il grottesco italiano, perfettamente incarnato nel volto e nel corpo di Toni Servillo, nella esagerazione senza freni di un attore ormai completamente mascherato. E allora, sembra smarrirsi la connessione necessaria tra il come e il cosa

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è stato il figlioÈ strano. Ma sembra che il cinema italiano, più di altri, si autocondanni a una distanza, si costringa a dibattersi nel tunnel di una deformazione prospettica permanente. Grottesco, umoristico, fantastico, ironico. Quale che sia il modo, il punto, ora, è stabilire una linea di fuga rispetto all’aderenza al reale, la (sua) storia più grande probabilmente. Ed è chiaro che il rischio è quello di un acquiescenza ossequiosa a una maniera dominante. Certo, la questione è che Ciprì, nel bene o nel male, è sempre stato un regista di maniera. E i segni del suo tragitto con Maresco, del suo mondo cinico, ci sono tutti. La staticità di alcuni personaggi, la miseria fisica e morale, il repertorio dei freaks, dei martiri, testimoni. Fugaci splendori e invincibili miserie di un’Italia dimenticata dal padreterno.

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Ispirato a un racconto di Roberto Alajmo, È stato il figlio è un altro viaggio negli inferi della periferia di Palermo, dove si consuma il dramma della famiglia Ciraulo. Vita di stenti, eppur tutto sommato dignitosa. II capofamiglia, Nicola, rivende il ferro delle navi in disarmo. Vorrebbe che il figlio Tancredi, passivo e silenzioso, uscisse dal guscio, si mostrasse più intraprendente. Come Masino, il cugino, giovane uomo d’onore. La normalità viene sconvolta dalla morte della figlia più piccola, Serenella. Vittima accidentale di un agguato mafioso. Da quel momento è tutto un calvario tragicomico di richieste di risarcimento, avvocati, approfittatori, usurai. Finché il racconto non s’interrompe, per tornare bruscamente all’identità di quel narratore monotono, Busu, povero disgraziato che passa la sua giornata in un ufficio postale.

 

Le premesse di una tragedia ci sono tutte: la condanna scritta sulla pelle, sulla carne, l’impossibilità d’appello al destino. E si potrebbe anche tollerare una distrazione. Ma è come se a quella di Ciprì si fosse aggiunta l’altra maniera, quella dominante, al grottesco personale si fosse sovrapposto, fino a prosciugarlo, il grottesco italiano, perfettamente incarnato nel volto e nel corpo di Toni Servillo, nell'esagerazione senza freni di un attore ormai completamente mascherato, un monstrum famelico incontenibile. Viene in mente, pur nella piena diversità degli stili e degli intenti, una similitudine curiosa tra La città ideale di Luigi Lo Cascio e questo È stato il figlio: il modo in cui sono disegnati i personaggi e si delineano gli spazi della città è lo stesso. Per cui non meraviglierebbe vedere il personaggio dell’avvocato Scalici/Burruano muoversi a bell’agio nel mondo deformato di Ciprì, in questo universo postatomico mutante. È il segno di un’insopprimibile esigenza a una forzatura che non sembra più appartenere al cinema, all’ipotesi di un rapporto diretto tra lo sguardo e le cose, l’immagine e il senso. È la predominanza di un filtro. Letterario, teatrale, intellettuale, quel che si vuole, ma comunque precostituito e appiccicato a margine del mondo. E allora, Ciprì sembra perdere per un istante la paternità del suo film, smarrire la connessione necessaria tra il come e il cosa. Il suo può ancora assomigliare a un cinema della morte, ma marchiato a sangue, ridotto definitivamente a un guscio vuoto, condannato a una sterile ripetitività. Almeno fino a quando non riesce a liberarsi in una tragedia vera, scura, senza più compromessi, senza più scrupoli.

Regia: Daniele Ciprì
Interpreti: Toni Servillo, Giselda Volodi, Aurora Quattrocchi, Benedetto Ranelli, Alfredo Castro.
Origine: Italia, 2012
Distribuzione: Fandango
Durata: 90’

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