Michael Cimino – È tutto cambiato…

Al di là del suo essere già storia, Cimino mi ha insegnato gran parte di ciò che mi sembra importante. E molto altro ancora, di cui non so scrivere né parlare. Ed è qualcosa che resterà

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È passato quasi un anno da quando scrivevo di Cimino e della sua Torre di Babele. Era il Pardo d’onore a Locarno. “Era il 38 luglio e faceva molto caldo”… Non è passato poi così tanto tempo. Ma mi sembra una distanza siderale, quasi una vita precedente. È cambiato tanto. Magari tutto. Alcune cose si sono chiarite. Molte altre si sono confuse. Forse mi sono abituato di più all’idea che il “lutto della felicità”, come diceva qualcuno, sia sempre dietro l’angolo. E allora, ad esempio, la morte di Cimino non mi sorprende più. Del resto già ci eravamo, miseri noi, abituati a pensarlo al passato. Come un pezzo di storia del cinema “e non solo”. Ed ecco, oggi, tutti a ripetere quella storia. I cinque Oscar, il più grande flop della storia di Hollywood, l’ostracismo, lo spirito libero. Lascio fare i racconti agli altri. Già… è tutto cambiato. Rido meno di prima, forse. E ormai le parole, il più delle volte, mi sembrano stonate, inutili. Ma quello che ho scritto un anno fa, mi sembra che racconti ancora la mia visione.

 

michael cimino“Cimino lotta con lo spazio. Si sa, è stato detto. Lotta per filmare tutto il filmabile, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande: il dettaglio di una goccia di vino su un vestito bianco e una battaglia riflessa nello specchio d’acqua, nuvole che attraversano il paesaggio e masse in movimento. In un solo film, in una sola scena si passa dal gigantismo al minimalismo. La Storia e l’amore, il Vietnam e gli amici, la Giustizia e la gelosia, Tachicardia e bradicardia. Quando fa fatica, interviene con la retorica (la nostra stessa retorica…). E spinge l’inquadratura fino ai suoi limiti naturali e anche oltre, là dove si intuisce la possibilità di una terza dimensione. Ma arriva sempre il punto in cui lo sguardo deve arrestarsi. Lo schermo fa una curva e il mondo si piega sulla linea dell’orizzonte. È il punto in cui le idee si confondono e in cui i ragionamenti cedono, in cui la concretezza realistica della prassi si trasforma in artificio fantastico, il vero in inverosimile. L’emozione forza le dimensioni, le flette. Non ci sono argini, direzioni certe, percorsi di entrata e di uscita. È come se fossimo nell’appartamento di Tracy Tzu, invaso da ogni lato dai cinesi della gang. Anzi l’interno diventa il luogo del pericolo, il covo dei banditi di Ore disperate. Non c’è riparo, casa sicura. Bisogna uscire per entrare e viceversa. E non c’è più distinzione tra l’apoteosi e il fallimento, tra il prima e il dopo. I flashback sono più veri del presente. ‘Dimmi, James, ricordi i bei giorni andati? – Ogni giorno che passa, sempre di più’. Crolla la Torre di Babele e Cimino, l’architetto, si muove nel caos delle lingue, tra i suoi pellegrini polacchi, russi, ebrei scacciati dalla terra del Signore, tra i suoi antenati italoamericani siciliani, tra i nativi malati di tumore. E lui è il primo colpevole, il primo immigrato clandestino in un cinema sempre più straniero. E nessun premio, per quanto giusto, riuscirà a riportarlo a casa.

Non è che sia morto il mito, come vogliono in tanti. Si è spento il sogno. Resta solo la sua nostalgia. E la speranza folle che tutto possa prendere di nuovo forma”.

 

the sunchaserMa se Cimino è l’architetto della Torre di Babele, chi è il Signore che confonde le lingue e disperde i popoli? L’industria, risponderanno in molti, ripensando alle infinite tribolazioni di una carriera unica e tragica. Quella Hollywood che è il precipitato perfetto di una nazione, con la retorica della sua “economia spettacolare”. Ma siamo sicuri che, in questi anni, non ci siano stati altri modi per superare l’ostracismo? Per continuare a girare, nonostante tutto? Anche dieci minuti, anche un secondo… Ho ancora l’impressione che Cimino, soprattutto lui, sia stato al tempo stesso l’Architetto che innalza torri e il Signore che distrugge. Perché il fallimento è già scritto nella grandezza stessa del suo Cinema, sempre pensato e inseguito con la maiuscola, anche quando i tempi si facevano bui. Sta lì, nelle pieghe di quelle sue incredibili curve emotive, nello splendore inutile delle sue derive narrative, in quell’ossessione di costruire la più perfetta delle miniature nel più gigantesco degli affreschi. Sta lì, mescolato al puro, come la goccia di vino sull’abito da sposa, come il sangue sulla camicia bianca di Nick, sul velo di Ella, sulle piastrelle bianche del bagno di Connie. È quella macchia che sporca il sogno. E se è così, allora il fallimento, lo spettro della caduta, è scritto ovunque, nelle tracce di ogni esistenza e particella.

 

the deer hunterCimino fa a pezzi il sogno? Niente affatto. Ha solo in apparenza demolito, ma per ricostruire, come la chiesa di Thunderbolt and Lightfoot. In verità, ha sempre lavorato per un’utopia. Quella di un cinema che rispondesse alla grande forma delle sue visioni. E quella di una società che integrasse la felicità e la libertà, la giustizia e la comunione, ritornando alla meraviglia del creato. Un idealista, in fondo, come tutti i suoi personaggi, cinici solo per dovere. Consapevole di dover riportare quell’ideale sul terreno del reale, per metterlo in gioco e per inverarlo, finalmente. Eccola, l’esplosione. L’utopia prova a farsi carne e incontra il sangue, la disfatta, il caos. Ma è la storia a sbagliare (per questo Il Siciliano è una splendido tradimento), non il sogno. Bisogna andare avanti, riprovarci … “Forse avete ragione tutti, sto inseguendo qualcosa che non esiste”…  Ma perché, allora, smettere di tentare? Forse perché, a un certo momento, è stato il cinema a perdere le coordinate del sogno, ha smesso di essere un racconto capace di connettere l’individuale all’universale. Cimino non ha più riconosciuto la sua maiuscola e ha finito per aspettare il ritorno di un nuovo tempo mitico. Avrebbe dovuto smettere di pensare da architetto (e da Signore), per ragionare da fuorilegge. Avrebbe dovuto rinunciare al progetto, per dedicarsi alla guerriglia, lavorando nelle zone d’ombra di quell’apparato che lo aveva bandito. Del resto, seppur diceva “il cinema è controllo dell’anarchia”, l’anarchia non è forse il punto d’arrivo di un’utopia? Ma chissà, è un discorso senza senso. È davvero tutto cambiato. “Te lo aspettavi Michael…? – No”.

 

heaven's gateIl fatto è che non riesco a non pensarci. Rivedendo Il cacciatore, ieri sera in Tv, mi è sembrato ancor più evidente. Sì, le grandi scene, la roulette russa, la caccia al cervo… Ma dove il film è davvero straordinario, è nei momenti che potrebbero sembrare i più “normali”, quotidiani. È nelle sbornie del sabato sera, negli sguardi tra Michael e Linda, nel modo in cui lei si riavvia i capelli nel riflesso di una vetrina, felice, per un attimo, di sentirsi di nuovo bella. È nei sorrisi di Nick, nel pianto di John mentre sbatte le uova. E così sarà anche dopo: gli sguardi imbarazzati tra Nathan e Ella nella casetta tappezzata di giornali, il dono del calesse, un ultimo valzer a due, dopo che il mondo è scomparso con una magia di montaggio. E Stanley White che piange a casa di Tracy Tzu. “Mi sento come uno stronzo… sei l’unica amica che ho, non è tutto da ridere?”.  

Sì, la frontiera di Cimino è nei limiti dell’inquadratura. Ma li supera davvero in quei momenti in cui, invece di forzare in orizzontale, si muove in verticale, nel profondo. Per trovare la terza dimensione dei cuori. È allora che l’emozione diventa incontenibile, come in pochi altri. Perché, finalmente, come un colpo solo, diventa tutto chiaro. Chiaro che qualsiasi immagine è nulla, senza un goccio di sangue e di vita. Che l’epica nasce nelle tende di Achille e nelle stanze da letto. Che un dramma da camera è una commedia sentimentale. Che ogni amore vuole i suoi pianti, come ogni guerra i suoi cadaveri. Che la storia e le aspirazioni di una comunità si nutrono dei battiti e dei silenzi degli individui. Che una sala da ballo può essere il paradiso di un giorno, nonostante l’inferno ci attenda al varco. Che la norma non è un comandamento di Dio. Che il fango, il sangue, le ferite e la perdita non sono una condanna eterna, perché dopo ogni lutto c’è un canto di benedizione. Che nonostante tutte le ore disperate, si può continuare ad andare verso il sole. May beauty be all round me… Cimino mi ha insegnato gran parte di tutto ciò e molto altro ancora, di cui non so scrivere né parlare. Ed è qualcosa che resterà. Perciò non lo voglio piangere. Rido meno di prima, forse. Ma rido ancora. Spesso rido ancora.

 

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