John Q, di Nick Cassavetes

Con “John Q.” non si va da nessuna parte, ammesso che da qualche parte si voglia ancora andare e, paradossalmente, con questo cinema rabbonito e di finta denuncia è più semplice anestetizzare i sensi dello spettatore.

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Corrono i titoli di testa e assieme, bianca, una Bmw con alla guida una ragazza bella, spensierata e imprudente. In una ripresa dall’alto la vediamo sfrecciare e prodursi in gimcane tra camion e automobili in una strada che corre via veloce tra le montagne e il suo destino. Una musica classica contrappunta le curve e l’accompagna sino al punto dell’impatto dove, il regista, con abile accrescimento dell’acme, porterà a termine la folle corsa della giovane, della musica, dei titoli. La ragazza sbanda, si blocca nel centro della strada e, grazie a una dilatazione tipicamente cinematografica, ha il tempo di guardare in faccia il tir, e la propria morte. Questo è l’incipit dell’ultimo film di Cassavetes jr. che, con una parabola alquanto predicatoria, antepone sin dall’inizio, con una sequenza in verità girata con buona mano, la traccia di quello che sarà il registro retorico del film. C’è chi se la cerca, la morte, e c’è chi, come il giovane figlio di John Q. (un uomo qualunque), a suo dispetto, è nato con un cuore a dismisura e malato, ma con una gran voglia di vivere e crescere, a dismisura, come uno degli ironman tanto amato e imitato. Perché bisogna essere forti, una parodia di un ironman, in questa America, in questo paese dove se hai qualche muscolo macilento e le tasche del portafogli vuote, ti tocca iniziare a pregare e a sperare in qualche figlia di papà, magari con una Bmw bianca, che per la profetica legge del contrappasso ti consegni, è proprio il caso di dirlo, il cuore nelle mani. Con queste tonalità di retorica e con lei, la ragazza dal portafogli pieno, si apre e si chiude il film. In mezzo, una sarabanda di déjà vu recitativi, un’accozzaglia di remake non accreditati e, con la complicità dei primi piani del pargolo intubato, il continuo tentativo di estorcerti una lacrima. Ma con questo cinema non si va da nessuna parte, ammesso che da qualche parte si voglia ancora andare e, paradossalmente, con questo cinema rabbonito e di finta denuncia è più semplice anestetizzare i sensi dello spettatore. Questo, le major americane lo hanno capito bene. Negli anni Settanta, nasceva il thriller-politico che offriva il suo cocktail perfetto nella miscela di due ingredienti: un intreccio da film di intrattenimento e, in seno, una denuncia sociale riconoscibile, contemporanea. In questi anni invece, in certo cinema americano, l’equilibrio dei due elementi sembra perdersi sempre più a favore di melense pantomime nelle quali, la paura di risvegliare nello spettatore-cittadino certi istinti, è più forte del timore di affogarlo nel brodo delle sue riconciliate lacrime. “John Q.” docet. Titolo originale: “John Q.”
Regia: Nick Cassavetes
Sceneggiatura: James Kearns
Fotografia: Rogier Stoffers
Montaggio: Dede Allen
Musica: Aaron Zigman
Scenografia: Clive Thomasson
Costumi: Beatrix Aruna Pasztor
Interpreti: Denzel Washington (John Quincy Archibald), Robert Duvall (Frank Grimes), James Woods (Dr. Raymond Turner), Anne Heche (Rebecca Payne), Eddie Griffin (Lester), Kimberly Elise (Denise Archibald), Shawn Hatosy (Mitch), Ray Liotta (Police Chief Gus Monroe), Daniel E. Smith (Michael William Archibald), Ethan Suplee (Max), Laura Harring (Gina Palombo)
Produzione: Burg/Coules
Distribuzione: Nexo
Durata: 111’
Origine: Stati Uniti, 2002

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