Eagles of the Republic, di Tarik Saleh
Il regista torna ad affondare il colpo sulla società egiziana e su un regime autoritario e spietato. Un thriller politico solido, ma forse un po’ troppo “pulito”. CANNES78. Concorso

George Fahmy è una delle più celebri star del cinema egiziano al punto da essersi guadagnato il soprannome di Faraone dello schermo. Ma la sua vita, sia privata che pubblica, è nel caos più totale. Anche perché il regime stringe sempre più le maglie del controllo sul mondo del cinema. Gli viene comunque offerta un’opportunità importante, il ruolo da protagonista in un biopic sul presidente Abdel Fattah al-Sisi. Un film, è ovvio, celebrativo e agiografico, pesantemente controllato dagli emissari del governo e che lascia ben poco spazio all’arte drammatica e al talento dell’attore. Che, per di più, rischia di rimanere stritolato nelle trame di un conflitto per il potere senza esclusione di colpi.
Dopo Omicidio al Cairo e La cospirazione del Cairo, Tarik Saleh torna ad affondare il colpo sulla società egiziana e su un regime autoritario e spietato, più volte messo all’indice per i suoi abusi. Eagles of the Republic è un thriller “in crescendo”, che parte quasi come parodia di un ambiente cinematografico che mima una grandeur irraggiungibile, per poi svelare sempre più le proprie ambizioni politiche, a mano a mano che il plot si complica e la tensione sale. Ed è un po’ la stessa parabola compiuta dall’interpretazione di Fares Fares. Che dall’inizio quasi macchiettistico in cui sembra replicare tutti i cliché della star dalla vita incasinata e, probabilmente, sull’orlo del declino, a poco a poco approfondisce la dimensione drammatica del personaggio. Fino a delineare la verità di un’esistenza dolorosa e smarrita, di cui lo status di attore è solo una maschera patetica. È chiaro che Tarik Saleh poggia buona parte del film sulle spalle forti del suo attore feticcio. Per il resto conferma la sua naturale inclinazione per il cinema di genere, una consapevole capacità di padroneggiarne le traiettorie e le tensioni, di disegnare strutture narrative solide, dritte e senza fronzoli. Il suo intento di denuncia, “interventista”, nei confronti della corruzione, della violenza e della propaganda di un regime autoritario, è netto, senza timori di sorta. E si concentra soprattutto sull’abbraccio mortale tra l’apparato militare e la politica, nonché sul sostegno repressivo di una cultura confessionale, dove dall’Islam al Cristianesimo copto, l’autorità religiosa finisce per essere strumentale a quella civile. Un po’ come il cinema, nella sua finzione incantata, che dà un’illusione di gioia e di evasione alla gente.
L’impressione è che, però, in Eagles of the Republic, un po’ come nei film precedenti di Saleh, tutto questo discorso politico proceda più per dichiarazioni di principio che per un’intima capacità delle immagini di materializzare l’oscuro, l’incubo, il terrore. L’indignazione è “detta” e il lato thriller è troppo illuminato, quasi ammansito da una confezione troppo pulita. In fondo, quello di Tarik Saleh, svedese di origine egiziana, è per natura un “cinema internazionale”. Come testimoniano qui la produzione franco-svedese e le musiche Alexandre Desplat. Con tutti i pregi di comprensibilità e i limiti di standardizzazione.