Earwig e la strega, di Goro Miyazaki

Primo lungo a rompere con la tradizione dell’animazione Ghibli. Goro Miyazaki si serve della CGI per raccontare timidamente il rapporto con il padre vissuto tramite gli occhi della sua Earwig

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Al 22° film lo Studio Ghibli decide di aprirsi totalmente al digitale. Già sperimentata, sempre da Goro Miyazaki, nella serie tv tratta da Ronja la figlia del brigante di Astrid Lindgren, autrice della Pippi Calzelunghe da cui Hayao voleva ottenere una serie, l’utilizzo della tecnica d’animazione in CGI ha svecchiato lo Studio Ghibli perdendo però tutta la profondità narrativa che invece ha acquisito l’immagine. La cura maniacale con cui sono stati costruiti volti e ambientazioni ha portato, al contrario, ad una scarsa attenzione verso la parte più di scrittura, dove per anni lo studio Ghibli è stato un’eccellenza.
Non c’è minimamente la profondità di lavori come Il castello errante di Howl (2004) e la trama esile e ricca di punti di domanda, risolta in maniera forse troppo affrettata, sembra un mero pretesto per far partire una nuova rivoluzione estetica. Eppure sotto i faccioni in CGI si nascondono punti parecchio interessanti che se approfonditi avrebbero portato il lavoro ad un livello nettamente superiore. La storia è semplice e parla della piccola orfana Earwig adottata da una misteriosa coppia di stregoni da cui cercherà di imparare i fondamenti della magia. Il punto di vista chiaro quindi diventa quello di una ragazzina di cui nessun genitore si è mai potuto prender cura. Earwig non vuole minimamente riunirsi con la madre, vuole solo primeggiare rispetto agli altri. Vuole controllare l’ambiente circostante e nel frattempo fare la propria strada per imparare le tecniche giuste di magia.

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Ed è qui che anche una figura come quella di Mandragora potrebbe quasi rappresentare il padre ricercato, ma che non deve essere mai disturbato. Un padre con cui è difficile avere un rapporto intimo, la cui stanza non è mai accessibile. Perché nella nuova casa di Earwig non ci sono porte d’accesso. Queste compaiono e scompaiono continuamente facendola prigioniera di un mondo che senza magia le sta stretto. Solo tramite la scoperta del proprio potenziale riuscirà ad ottenere il passaggio verso quel muro impenetrabile dove si nasconde la parte più intima di Mandragora. È come se nel rapporto tra la protagonista e lo stregone si nascondesse una lucida quanto timida analisi del rapporto tra Hayao e Goro Miyazaki che non ha mai nascosto le difficoltà di comunicazione con il padre. Il futuro dello studio Ghibli passa tra le mani di Goro e della sua rivoluzione estetica. Ormai padrone di un mondo magico che ha consacrato il padre come icona del cinema d’animazione e che in futuro potrebbe consacrare anche lui.

Titolo originale: Âya to majo
Regia: Goro Miyazaki
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 82′
Origine: Giappone, USA, 2020

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.5 (2 voti)
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