Eddington, di Ari Aster

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Pamphlet sulle isterie dei presente con la programmaticità a efferatezza progressiva di un apologo dei Coen e la gittata satirica di un episodio dei Simpson, nel bene e nel male. CANNES78. Concorso

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Eddington è il ragionevole approdo della poetica di Ari Aster il quale, partito dal racconto delle nevrosi familiari e comunitarie di Hereditary e Midsommar, attraversando quelle personali e dell’anima di Beau ha paura, giunge qui a fare i conti con le “malattie” del presente, con un pamphlet ad efferatezza progressiva ambientato nel maggio 2020 in una cittadina del New Mexico al confine con la “nazione indiana”.
Da un certo punto di vista il percorso del cineasta, iniziato con una serie di horror diventati istantaneamente di culto per questa generazione, non è troppo lontano da quello di un Ti West, e Beau ha paura sta a Pearl come Eddington a MaXXXine, ovvero il capitolo più apertamente – e sfacciatamente, programmaticamente – “politico” del lotto, che non può e non vuole nascondere il tono della metafora scoperta, del j’accuse reiterato.
Aster affronta così in sostanza la totalità dei temi che hanno tenuto banco nell’ultimo quinquennio: paranoia da Covid e da distanziamento sociale, Black Lives Matter e i riot scoppiati dopo l’omicidio di George Floyd, l’attivismo politico nell’epoca di Instagram, con James Baldwin e Angela Davis usati come hashtag, i giganteschi hangar di stoccaggio dati che le tecnocorporazioni vanno costruendo nelle province americane, le energie sostenibili, i bitcoin, l’amore degli statunitensi per le armi in casa, l’ossessione per i pedofili della frangia cospirazionista dei social, e relativi content creator in odore di estremismo religioso… l’elenco potrebbe probabilmente continuare, con il piglio della satira sui nostri tempi ipnocratici che, nel bene e nel male, ha la stessa gittata di un episodio dei Simpson, Eddington come Springfield, con Joaquin Phoenix nel ruolo del Commissario Winchester di turno, anche se verosimilmente l’ambizione era invece più letteraria, da romanzo allegorico della grande tradizione americana di small town.

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Prendere o lasciare: Aster qui assume chiaramente il ruolo di cecchino, è lui lo sniper che, uno ad uno, colpisce i suoi “nemici” dalla lista, con il tono sarcastico di chi vuole farci sentire sempre più intelligenti di questo popolo di zotici incattivito dalle rispettive esistenze desolate a fronte del successo immeritato dell’elite (il sindaco latinos di Pedro Pascal…): la sequela annichilente di trovate di intolerable cruelty potrebbe davvero far tornare alla mente certi apologhi, non meno raggelanti, di Ethan e Joel Coen.
Con la differenza però che i “western contemporanei” dei fratelli di Fargo e Non è un paese per vecchi si portano dietro il respiro e la costruzione del cinema classico, mentre Eddington abita in tutto e per tutto le forme del nostro presente (l’equivalente insomma di Don’t Look Up di Adam McKay), tra le fake news deliberate delle bacheche degli smartphone, le live in diretta dagli eventi come unico mezzo di informazione, addirittura una sezione di sparatoria con droni e armi pesanti (contro la Supremazia Bianca…) per le strade notturne del villaggio che guarda apertamente al linguaggio dei videogame in stile GTA o Cyberpunk 2077 (il passaggio dall’armeria prima della kill frenzy).
Ari Aster continua a praticare un cinema dello shock, che lancia ancora una volta Joaquin Phoenix in un assolo allucinatorio e febbricitante. E’ evidente come il cineasta abbia guadagnato la libertà espressiva e produttiva per rendere questi traumi sempre più grandi ed elaborati – è lo stesso meccanismo con cui funziona l’epoca della post-verità che il film vuole scoperchiare, d’altronde, un contenuto che si autolegittima quanto più viene gonfiato: ma il parossismo stilistico dell’autore sembra aver qui definitivamente, e malauguratamente, barattato l’urlo abissale della Florenche Pugh di Midsommar per la desolazione ridanciana di Eddington, il femminile isterico di Ari Aster, originato dalla madre tarantata di Toni Colette, arriva stavolta alla figura (letteralmente) sfocata della Emma Stone qanonista di questo film.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
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