Eggers e Nosferatu, l’archeologia di una passione
“Nosferatu inventa l’horror e il suo montaggio inventa il cinema” aveva detto il cineasta newyorkese prima di concepire il suo personale e sudatissimo Conte Orlok finalmente giunto in sala in Italia

“Il tempo è un abisso profondo come lunghe infinite notti” recitavano i tormenti del conte Dracula nel Nosferatu di Herzog del 79; con Klaus Kinski nella pelle di un vampiro esistenziale, dalle fatiche più astratte di ogni bestiale follia contenuta nel primo Nosferatu di Murnau, anima maledetta che scatenava tutta la pulsione di morte della Germania di Weimar. E se il tempo della storia è un abisso, quello del cinema dura un istante: l’archeologia di una cultura che cerca le orme di una qualche risposta, mentre sprofonda nelle domande impolverate lungo i secoli.
Così il cinema rovista tra i ricordi dell’infanzia del muto, dandogli nuova dignità con la sua arte di evocare i fantasmi. Lo scriveva un decostruttore di immagini come Derrida, che credeva nelle parole e nella loro riscrittura. Perché ogni storia nasce ai margini di un’altra, che subito diventa mito dalla fame di modernità. Così Nosferatu mostra i solchi di un archetipo grande quanto tutto il cinema: il non-morto di Murnau, il pensoso principe herzogiano, ma anche il Dracula di Coppola. Così vicini, progettano il nemico della società benpensante, che vive il terrore della malattia e della fine della civiltà
“Nosferatu inventa l’horror e il suo montaggio inventa il cinema”. Parole di Robert Eggers, quando nel podcast di A24 del 2019 raccontava all’amico Ari Aster i suoi primi amori cinematografici. Poi, sei anni e l’amletica apologia della vendetta in The Northman, a separarlo dal suo sudatissimo Nosferatu, nelle sale americane da Natale e in Italia da ieri. “Ci ho provato per dieci anni” ha raccontato al magazine Script, tirando le somme di una passione dagli albori giovanili, quando diciassettenne, nel teatro del liceo, aveva inscenato un Nosferatu stile Gabinetto del dottor Caligari, ancora “più espressionista dell’originale”.
Il capolavoro di Murnau inventa l’horror nel battesimo sinfonico di ombre e paure, con il primo vampiro del cinema – dopo la bozza di Méliès in Le Manoir du Diable – ed Eggers, regista archeologo, sa cercare la storia (della società, del cinema) nelle storie, di miti imponenti e fiabe focolari.
Sin da quel corto d’esordio che è Hansel e Gretel, adattamento dell’opera dei Grimm, che omaggia la lingua del cinema muto (il bianco e nero, le didascalie primonovecentesche, le grezze dissolvenze) con i crismi di quello moderno. Tratteggia il cammino macabro di due fratellini e un bosco grandangolare che li inghiotte in una casa stregata.
È un lavoro sbilenco, dalle fattezze acerbe e sincere di un debutto giovanile, ma anche il presagio alle ossessioni di The Witch, opera fiamminga che guarda al crollo di una famiglia sotto i colpi della legge di Dio. Ogni evento nella fattoria alle porte del bosco è spiegato con il senso manicheo – il bene o il male, Dio o il Diavolo – del predicatore William e sua moglie.
Tra le allegorie del mondo animale e il brusio di preghiere impaurite si nasconde ancora l’inconscio della foresta nel primo lungo di Eggers, dove i fratelli Thomasin (Anya Taylor-Joy all’esordio) e Caleb, minuscoli si perdono nel bosco senza sollievo come quello di Hansel e Gretel. E nella paranoia dei luoghi prende corpo tutta la bestialità del maschio eggersiano, indifeso quindi selvaggio.
Come i guardiani del faro-fuoco di Prometeo in The Lighthouse, Ephraim e Winslow (sublimi Pattinson e Dafoe), uguali duellanti di un film gigante, dal simbolismo senza confini. Sprigiona le ombre junghiane e gli affanni edipici di un aiutante che spera nella disperata grazia del custode, capo tiranno e fantasia paterna. Ma nella cornice di un 4:3 bianco e nero si fa strada anche il vincolo hegeliano servo-padrone, tra uomini sull’orlo della nevrosi che sembrano quasi citare The Tell-Tale Heart e Brothers.
Quello di Eggers è un cinema di luoghi dialettici; dal bosco labirintico della New England alle lande vichinghe di The Northman, dove la vendetta di Amleth è svuotata di ogni Shakespeariana nobiltà. Restano soltanto i codici e le geometrie di una leggenda, prima del Nosferatu di Eggers che sarà ancora un braccio di ferro col cinema per amore del mito.