El suplente, di Diego Lerman

Pieno come un uovo, con una studiata ed efficace ingegneria di scrittura, un pregevole reperto filmico che raggiunge gli obiettivi. Dal Festival del cinema Africano, Asia e America Latina di Milano

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Pressoché sconosciuto in Italia Lerman è, invece, autore e produttore attivo e per nulla trascurabile nel panorama del cinema argentino. Stesso destino del cinema argentino sufficientemente, e a torto, è trascurato in Italia, se non per qualche titolo che solo occasionalmente, colorisce le uscite, solitamente dopo le kermesse festivaliere di peso internazionale. Di sicuro stessa sorte toccherà a El suplente, ultima fatica del regista argentino in concorso a Milano nella sezione principale Finestre sul mondo, a meno che non venga aiutato da quella porzione di produzione italiana che ha contribuito a realizzare il film.
Se è la scuola, di una periferia, dura e difficile della grande Buenos Aires, il microcosmo nel quale si ambienta la storia, è in verità Lucio (Juan Minujin) il suo protagonista a costituire il nucleo centrale della storia. Scrittore e studioso di letteratura, insegnante per vocazione, figlio per appartenenza del “Cileno” (Alfredo Castro) che aiuta i più poveri, ma che soffre di un male incurabile, Lucio si troverà a dovere fronteggiare una cosca locale che traffica in droga per mezzo di qualcuno dei ragazzi della classe alla quale è stato destinato come supplente di letteratura. Si opporrà con decisione per difendere e salvare la vita al suo giovane studente.
Nonostante la storia, che appartiene a ciò che ormai nelle metropoli si classifica, senza troppo stupore, come ordinaria cronaca, El suplente finisce con l’essere uno strano contenitore grazie al quale, come in un buon romanzo, si svelano le molteplici facce del personaggio principale. Lucio è il protagonista assoluto e in una escalation progressiva e geometrica, l’interesse verso il suo personaggio trasforma il film da racconto di possibile formazione, come un po’ tutti quelli ambientati nel mondo della scuola, in un anomalo noir nel quale emergono di volta in volta particolari, attorno ad una oscura storia di traffico di droga e di scontro tra bande. Relazioni e oscure trame che si muovono in quel quartiere e di cui sono vittime i ragazzi, che sembrano sfuggire alla (nonostante tutto) lucida intuizione di Lucio. Si innesca una mutazione geneticamente dell’approccio narrativo in un crescendo che rende il film anche narrativamente, appassionante. In questo succedersi di eventi e in questo studio quasi entomologico del personaggio di Lucio – probabilmente mai fuori scena con un protagonismo invincibile – non manca il suo profilo privato, di ex marito di una donna che nel frattempo si è innamorata di un’altra donna, di una figlia che ripete tra le mura domestiche le stesse indolenze dei suoi coetanei nella classe in cui lavora, di figlio devoto al padre e suo ammiratore per il bene che ha saputo distribuire nel quartiere. Tutto questo fa di lui, tutt’altro che un supplente, come l’apparente semplicistico titolo farebbe supporre. L’ingegneria di scrittura del film è ben più studiata di quanto appaia e sa lavorare per opposizioni apparenti che fanno emergere un ben differente realtà. Lucio è un protagonista assoluto della propria vita in crisi e come tale personaggio contemporaneo nella sua vissuta rassegnazione e onnipresente come si provava fare notare, non abbandonando mai la scena del film.

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Sono gli sguardi molteplici, le loro prospettive, a fare di El suplente un film pieno come un uovo, sapendo lavorare su un materiale ricco di suggestioni come un quartiere pericoloso e periferico di una metropoli, sapendo fare emergere le tensioni sottostanti e il disagio sociale delle baraccopoli; ma sapendo anche restituire uno sguardo rassegnato, come quello di Lucio, sul mondo della scuola, anch’esso vittima di una globalizzazione che rende ormai indistinguibile il mondo di L’anno che verrà con quello della scuola di questo film nonostante l’abissale distanza geografica che li separa. Ma il film, che lavora essenzialmente su un preciso canovaccio di scrittura, diventa anche un interessante lavoro di traduzione teorica della tecnica narrativa.
Una delle lezioni di Lucio per i sui distratti alunni verteva sul genere poliziesco. Una riflessione che serviva a quasi a preparare il terreno al futuro svolgersi della storia del film, che ad un certo punto, con una decisa svolta, introducendo elementi di tensione narrativa, tra polizia che esegue perquisizioni non autorizzate e narcotrafficanti che mettono in pericolo le vite di chi non intende abbassare la testa, sembra diventare laboratorio pratico di quella teorizzazione scolastica. Quindi essenzialmente cinema di scrittura, ma non imbalsamata, racconto dentro i tempi e studio profondo del personaggio sanno fare di quest’opera dello sconosciuto Lerman un pregevole reperto filmico che sa lavorare in profondo e nella sua pienezza raggiungere gli obiettivi, in equilibrio tra scrittura, cronaca e immersione in un reale per nulla artefatto e per nulla naturalistico.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8
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Il voto dei lettori
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