Elia Kazan, l'ultimo fuoco

Il cinema di Kazan (morto all'età di 94 anni) è stato davvero uno degli sguardi più intensi della vecchia “off Hollywood”, uno di quei desideri filmici incapaci di sedimentarsi in un solo set, perchè cinema desiderante, pulsione aritmica di una volontà di essere sempre, in qualche modo, oltre il tempo.

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Pensando alla storia del cinema americano degli ultimi cinquant'anni ci vengono in mente nomi, date, corpi, racconti, come intrappolati in un andirivieni di proiezioni mentali in grado di contenerli tutti, o quasi. E' il desiderio di abitare quegli spazi, l'ardente necessità di misurarsi con l'intensità di uno sguardo, di un'espressione, di un preciso tempo della messinscena. Ecco, il cinema di Kazan (davvero uno degli sguardi più intensi della vecchia off Hollywood, uno di quei desideri filmici incapaci di sedimentarsi in un solo set) è cinema desiderante, pulsione aritmica di una volontà di essere sempre in qualche modo oltre (oltre il set evocato, oltre la parabola finzionale, oltre la stessa temporalità della vicenda raccontata), pur aderendo in modo eccezionale all'ambiguità chiaroscurata del reale filmato. Al di là della convenzione, direttamente all'interno di superfici frastagliate, ondivage, mai piane. Un po' come accade ai corpi presenti sulla scena delle sue opere, una sorta di cristallizzazioni di una potenza sempre trattenuta, mai espressa in pieno, proprio perché chiusa in dimensioni claustrofobiche, impermeabili, che catturano l'anima per piegarla in una infinita ripetizione di movimenti ripetitivi, stanchi, meccanici. Non è un caso che la sua prima straordinaria opera, Un albero cresce a Brooklin (1945) contenga già in se tutte le tracce del suo cinema futuro. Kazan filma la famiglia all'interno di un quadro sociale di miseria e devastazione, ma non è mai una realtà a venire fuori, semma la percezione di un quotidiano sistematicamente trasceso dal rapporto micro/macro cosmo (la distanza virtuale tra l'angusta rarefazione della periferia e l'immagine di una New York come immensa, sempre filtrata attraverso una cartina tornasole che ne restituisce volumi e contorni quasi amplificati), e soprattutto dall'interazione di corpi inquadrati in distanze minime (Kazan ricrea una possibile comunità di uomini proprio laddove tutto farebbe pensare ad una prospettiva finale di solitudine), quasi a voler racchiudere in gesti minimi l'essenza di un'umanità dolce e terribile. E' solo il suo primo film, eppure si tratta già di dispiegare in due ore di durata la tenacia di un corpo sempre contenuto in tanti altri set possibili (la figura di un grande James Dean, qui vincitore dell'Oscar come migliore attore non protagonista, e il suo rapporto problematico con le responsabilità che si è preso), teso lungo le retrovie di un futuro sempre rimandato a data da destinarsi.

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L'uomo di Kazan (né eroe, ne è antieroe, perché vittima di un contesto che nega ogni forma di libertà individuale) cammina lungo strade deserte, fa a pugni, e beve per dimenticare che nella vita non c'è redenzione. C'è semmai una lunga espiazione, attraversata dal fragore di una violenza che non lascia scampo. La stessa che prova sulla propria pelle il Peck di Barriera invisibile, in cui Kazan si cimenta nella costruzione di una sorta di inchiesta sulla violenza contro gli ebrei, producendo una messinscena che si allontana immediatamente da ogni tipo di ancoraggio fermo alle coordinate di genere, per imbattersi in tante diverse fisicità mischiate, alternate, scambiate. E' un grande gioco con le apparenze della verità e della giustizia (le stesse che portano il protagonista del Corridoio della paura di Fuller ad essere internato in un centro psichiatrico), perché il cinema ha l'obbligo di spaesare, scombussolare, agire la differenza che si muove tra la normalità e la diversità, il quotidiano e l'eccezionale, il dentro e il fuori. Kazan non fa un cinema a tesi, né tantomeno un film inchiesta, ma un cinema che si interroga sul retaggio limitante di una struttura di potere da scavalcare, in un modo o nell'altro. L'immensa politicità dell'occhio di Kazan non si ferma però soltanto all'impressione filmica presente (quella che appunto nasce come distorsione sublime di un modo di fare cronaca). Nello splendido e sottovalutato Mare d'erba (uno dei mèlo più arrischiati della fine degli Anni Quaranta), il regista arriva addirittura a mandare in frantumi la classica coppia cukoriana Tracy/Hepburn per scoppiare la loro unione in un triangolo di fuoco (il terzo è il grande Melvin Douglas che aveva affiancato Tracy anche in Capitani coraggiosi) ambientato intorno alla fine dell'Ottocento, e arroventato su traiettorie assolutamente innovative per quegli anni, inclini ad una gestazione estremamente fisica della sessualità e della sua valenza distruttiva. Kazan anche stavolta supera subito l'impasse descrittiva dell'inizio, per avventurarsi in un sali-e-scendi di momenti mai programmaticamente forti, ma sempre affidati ad una sensibilità filmica che lavora di cesello sui campi medi, e i primi piani, quasi costruendo la lenta epifania di un racconto fatto di silenzi, di armonie mancate, di aperture improvvise che spalancano la finestra su di un luogo del tutto inaspettato. Col passare degli anni (ci troviamo negli anni Cinquanta) Kazan dimostra un'attenzione sempre più marcata nei confronti dei dettagli fisici, dei legami di sangue destinati a implodere in un rigurgito di membra infuocate, all'insegna insomma di un cinema del corpo a cui inizia a dare un risalto sempre maggiore. In Bandiera gialla (forse la sua opera più oscura, lancinante, e al tempo stesso ambigua) parte infatti dal corpo di un emigrante ucciso, il quale, in seguito all'autopsia, mostra i segni di una gravissima e contagiosa malattia polmonare. Il cadavere dell'ipotetico untore è presto dato, ed è in questa immobilità di fondo che l'opera si inerpica subito in una costruzione volutamente a ritroso (si indaga sul passato dell'uomo e sulla sue relazioni prima dell'omicidio per evitare il contagio), in cui il cinema non può far alto che essere raffigurato come corpo vagante in una terra di nessuno, una sorta di voce fuoricampo che sancisce un'azione veloce, inesorabile e volutamente inesauribile. Il marcio però non è dentro il corpo, ma fuori. Si trova nel dispositivo di potere che lo ospita, nell'aria malsana che respira, nell'interazione mancata con altri corpi malati, diversi, alienati.

Lo dimostra bene Un tram chiamato desiderio in cui esce appunto fuori lo sguardo vampiresco di una macchina da presa che, stretta tra le astuzie tragiche di un Tennessee Williams e il teatro della crudeltà di Artaud, filma la lenta morte al lavoro all'interno di uno spazio ristrettissimo, alimentandosi continuamente di scatti improvvisi, pause, evasioni sia pur solo mimate che portano alle estreme conseguenze tutto il cinema del regista. L'esterno non esiste più, c'era forse, ma è stato dissolto in una chiusura incondizionata dove si abdica sistematicamente alla vita, per torturarsi davanti ad uno specchio impietoso (quello del tempo certo, ma anche quello che mima il mèlo per annientarlo regolarmente in un atto mancato, in un'azione allucinata, dunque senza sbocchi). Kazan non fa teatro al cinema, ma porta entrambi in un punto di fusione che manca di organicità, di equilibrio, di integrazione. Il suo è un cinema quasi inorganico (la Leigh che pare in uno stato di frustrazione psichica che segna definitivamente il passo rispetto alla rotondità danzante del Fleming di Via col Vento) in cui il corpo è il fantasma inquieto della scena, la materializzazione astratta di un sogno (quello della presenza, ormai irraggiungibile) a cui dà un'indimenticabile idea di corpo Marlon Brando, frutto del lavoro sull'attore che in quegli anni Kazan conduceva con Strasberg all' Actor's Studio. E' questa la fisicità che fa per Kazan, questa la forza immaginativa di uno scoppio fisico avvenuto quando ormai è troppo tardi. Brando sprizza forza/sensualità/aggressione da ogni poro, ma sono tutti segni del deterioramento di un corpo tenuto artificialmente in vita ( proprio come quello di Bandiera gialla), rinchiuso in una gabbia in cui dare per l'ultima volta Spettacolo di sé, ipotizzando ancora la presenza di un pubblico. E' la morte allora a significare nuovamente qualcosa (la stessa che si materializza nell'ambiente portuale di Fronte del porto, in cui Brando riprende vita dall'acqua, in una cornice che da realistica si fa lentamente surreale, per poi naufragare direttamente in una totale indistinzione di fondo), perché unico modo possibile di dare scacco ad un interno che annienta lentamente. Se il set familiare conduce all'erosione di ogni tipo di pulsione vitale, è anche vero che può preludere all'irruzione di forze incontrollabili, capaci di (ri)impaginarlo, sconvolgendolo. Questa l'incisione drammatica di Baby Doll, in cui, prima ancora della teorizzazione del desiderio proibito della Lolita kubrickiana (peraltro tutta giocata sul discrimine immaginativo della pulsione sessuale) Kazan elimina referente, racconto, e dimensione simbolica, per continuare a giocare il suo cinema sul primo piano (quello di Carroll Baker) che da elemento fondante la scena, si allarga gradatamente al contatto con altri occhi, altri corpi, forme di sessualità per certi versi coatte ed ostacolate che conducono alla formazione di un quadro chiaroscurato, accecato da occhiate singhiozzanti (ecco allora la risoluzione del vedere in Kazan, quella di un occhio che spia l'esterno, continuando a praticare l'impossibilità di accedervi) in cui si consuma ancora una volta letteralmente il corpo di Karl Malden e quello desiderante dell'eccezionale Eli Wallach. E' soltanto ne La valle dell'Eden che Kazan prova l'impossibile (almeno per il suo cinema): liberare il corpo, innescando al suo interno un processo centrifugo che lo porta per la prima volta ad esperire realmente cosa si nasconde fuori. James Dean (altra magnifica e dannata creatura, frutto del lavoro sul nuovo attore) alla riscoperta della madre allora, che scopre essere una prostituta e che mette inconsapevolmente in moto un conflitto che Kazan riesce a guidare fuori/dentro il set, palleggiando l'interno con l'esterno, scambiandoli di posto, e filmando la carica eversiva di Dean mai con l'intenzione di comporre un quadro di ribellione generazionale, ma elevando proprio i suoi uomini a potenza di se stessi, scarti infinitesimali di un disagio catturato nel fuoricampo (il corpo della madre di Dean da sempre oscillante tra presenza e assenza), più che nel singolo apparire dei quadri prospettici.

Nel cinema americano dell'epoca (non parliamo di Hollywood, visto che Kazan in un modo o nell'altro ne è sempre rimasto fuori) Kazan rappresenta una meravigliosa contraddizione sempre giocata su soglie mai del tutto chiare: è un grande narratore in grado di riscrivere le pagine della tradizione (da Williams a Steinbeck), ma al tempo stesso un autore che denuda progressivamente la messinscena da ogni dettaglio, finendo per concepire un'immagine quasi virtuale, in cui è rimasto un solo corpo, prigioniero come prima, ma ora puro oggetto nello spazio, astrazione fisica come poche di un congelamento definitivo. Basti pensare all'Andy Griffith di un Volto nella folla che non a caso in chiusura resta solo sul palcoscenico televisivo, inconsapevole che la sua voce continui ad essere sentita, e finalmente libero di esprimere senza censure il suo reale pensiero. Kazan non usa la macchina da presa per denunciare (in questo caso si potrebbe pensare ad una sorta di denuncia contro il potere della televisione), ma semplicemente per continuare a filmare l'inquietudine di corpi rimasti soli, in balia di se stessi e alle prese con un ambiente spoglio di ogni umanità (in Fango sulle stelle si registrò un'inversione di tendenza solo grazie al mèlò che nasce nel punto più impensabile, proprio nel momento di massima crisi idealistica del protagonista, Montgomery Clift). Questa in fin dei conti poi l'immagine della Wood di Splendore nell'erba che, in chiusura, va a trovare la sua vecchia fiamma (Warren Beatty) per trovarlo sistemato in una fattoria, anche qui in un lento riaffiorare del passato sotto forma di segno ormai svuotato di ogni possibilità di ri/essere, perché decapitato dall'irruzione di un futuro mai abbastanza calcolato. E' una soglia da superare allora, un confine che divide, una distanza incolmabile, come quella che divide il Douglas de Il compromesso dall'amore, lungo una scia di ripensamenti che costeggiano da vicino la biografia più acceda dell'autore (la vecchia storia ad esempio del tradimento, consumato, pare, da Kazan durante l'epoca maccartista a danno di alcuni suoi colleghi), in moto eternamente frenetico che costeggia la verità sui sentimenti, senza riuscire mai ad impadronirsene per intero. E' insomma il periodo del ripensamento dell'autore, di un suo guardarsi indietro che non caso collima con la sua ultima opera, Gli ultimi fuochi, in cui fa ri/vivere l'immenso De Niro nel corpo di un produttore calcato sull'immagine di Irving Thalberg, in una grossa girandola finzionale in cui, invece di uscire fuori una sorta di funerale del cinema (almeno quello delle origini), lievita il cinema ancora da venire, quello affidato all'artigianalità del gesto, quello che si fa con una semplice moneta (la sequenza in cui De Niro reinventa il cinema davanti a Plesance), ma anche quello già fatto, quello sognato, immaginato, vagheggiato. Quello che i passeggerei disperati de Il ribelle dell'Anatolia, in procinto di raggiungere per nave l'America, hanno di fronte ai loro occhi, ma anche quello delle ombre del teatro cinese, quello delle semplici illusioni di realtà. Quelle che aveva impresse negli occhi il ribelle Kazan, che da Istanbul si imbarcò in America nei primi del Novecento. America, America, allora. Perché il viaggio non abbia mai fine.

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