Ennio. The Maestro. Intervista a Giuseppe Tornatore

Abbiamo incontrato Giuseppe Tornatore in occasione dell’uscita in sala del documentario dedicato a Ennio Morricone con cui ha collaborato per oltre trent’anni, presentato fuori concorso a Venezia78

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Abbiamo incontrato Giuseppe Tornatore in occasione dell’uscita in sala del documentario dedicato all’amico Ennio Morricone, con cui ha collaborato per oltre trent’anni, presentato fuori concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.

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Questo documentario fa capire come la musica sia il volano di tanti film, a volte il film è bello perché c’è una musica straordinaria. Di questo era consapevole Morricone? Avete mai parlato di questo aspetto?

Ne abbiamo parlato molte volte. Lui aveva un’opinione personale, un po’ respingeva l’idea, un po’ gli dava fastidio che in un film la cosa più importante fosse la musica. Uno schema del genere lo riteneva squilibrato. Sosteneva che la musica per essere efficace al massimo per il film dovesse poter vivere di luce propria, questa era la sua filosofia. Quindi la musica doveva nascere dalla tessitura narrativa del film, da suggestioni, suoni, radici interni al film, ma che dovesse avere la capacità di poter vivere autonomamente. Se tu gli dicevi “Quel film ha successo perché è bella la musica” si ritraeva.

Questo film racconta tante storie d’amore di persone timide e razionali, com’era Morricone e com’è anche lei. Il sentimentalismo però non è una chiave di comunicazione, non è stata la guida.

La linea sentimentale del film non è stata assolutamente voluta, non è precostituita, tutt’altro. Anzi, l’ho dovuta trattenere certe volte. Come diceva Ennio, uno non scrive una musica che commuove, che faccia piangere la gente. Lui partiva sempre da uno studio, da una struttura, o meglio ancora da un esperimento musicale. Però lo faceva con tale rigore, con tale sincerità, da trasmettere anche emotività. Infatti diceva che l’ispirazione non esiste. E così io nel mio film non ho mai pensato “Ora faccio un film che commuove”. Ho pensato che volevo fare un film su Ennio, che faccia ritrovare Ennio a chi lo conosce e lo faccia scoprire a chi non lo conosce. Ma devo fare anche un film sulla sua musica, quindi deve avere un linguaggio che deve rispondere non tanto alle leggi del linguaggio cinematografico, quanto alle leggi della musica. Spero che tutto questo abbia portato ad un film che ti dia il personaggio non solo per quello che lui dice e per quello che gli altri dicono di lui, ma per quello che tu avverti quando senti la sua musica, ricordata nella sua genesi rispetto al film o anche nei suoi rapporti con le persone importanti della sua vita, come il maestro Petrassi, come la moglie. Questo ha portato anche ad una linea sentimentale che è la conseguenza, non il dato di partenza.

È stata una cosa voluta quella di far comparire Maria sempre “di traverso”, mai interpellata in prima persona ma attraverso il racconto?

In un primo momento pensavo di intervistarla, pensavo che fosse utile al film perché pensavo di farmi dire da lei cose di Ennio che persino la disponibilità che lui ha avuto nel raccontarsi a me non concedesse. Maria invece mi disse subito di no, che non ha mai voluto rilasciare interviste. Sarebbe stata disponibile a raccontarmi cose solo senza macchina da presa. Tempo fa, dopo aver visto il film finito, mi ha chiamato e mi ha detto “Sai, mi sono sempre sentita un po’ in colpa per averti detto di no, però credo di aver avuto ragione“. E ha ragione. Lei è una figura talmente importante, è una donna con una personalità talmente forte che in qualche maniera avrebbe un po’ squilibrato il film perché non sarebbe stato più Ennio, avrei dovuto cambiare il titolo e chiamarlo Ennio e Maria. Lui era un genio della musica, non sapendolo – che era la chiave della sua grandezza – , lei era un genio dei rapporti umani, della sensibilità. Quello che dice Caterina Caselli è straordinario ed è la verità. Lei ha costruito un perimetro di protezione attorno ad Ennio per consentire al suo genio di venire fuori. Ma non l’ha fatto solo per un periodo della sua vita, l’ha fatto sempre.

Nel film viene detto che Morricone si poneva quasi come uno psicologo nei confronti dei registi con cui lavorava, nel cercare di interpretare la loro volontà per tradurla in musica. In che misura questo dipendeva dalla sua volontà e determinazione nel rimanere fedele a se stesso e alla propria idea di musica rispetto alla libertà che gli lasciavano gli autori di esprimere il proprio genio creativo?

Il rapporto tra musicista e regista non è una legge assoluta, dipende dai caratteri. C’è il regista che finisce il film, glielo fa vedere, si fida perché sa che Morricone musiche brutte non ne fa e non gli dice niente, quello gli fa le musiche e magari ne fa una in più per dargli la possibilità di scegliere. Ma questo a Ennio non piaceva. Curiosamente, proprio una delle cose che più gli dispiacevano era che frequentemente, la maggior parte delle volte, i registi non si intendessero di musica. A lui dispiaceva questo, perché gli sembrava una fatica dolorosa il fatto di dover concepire qualcosa che il regista poteva capire quando era ormai troppo tardi. Infatti diceva “I registi certe volte la devono subire la musica“. Però nell’equilibrio del rapporto, e adesso parlo di me, io sentivo che fosse sbagliato lavorare con un grande musicista cercando di imbrigliarlo in degli orizzonti sicuramente legittimi, dettati dalla consapevolezza del regista rispetto alla storia che sta raccontando, ma che tradotti in musica, quindi in un linguaggio che non è proprio del regista, devono necessariamente risultare dei limiti illogici, che non stanno in piedi. Se devo lavorare con un grande musicista e lo devo costringere entro dei limiti concepiti da uno che non conosce la musica, deve venire per forza un obbrobrio. L’equilibrio è riuscire a suggestionare il musicista e portarlo sul tuo terreno narrativo, lasciandogli però la libertà di esprimersi con il suo linguaggio. È più facile che in questo modo lui possa fare la musica fedele a lui ma pertinente e aderente al film.

Morricone ha mai pensato che la musica fosse un’arte superiore al cinema?

No, lui questa cosa non l’ha mai pensata. Ovviamente era consapevole che il suo linguaggio, quello della musica, fosse un linguaggio assoluto, il linguaggio universale per eccellenza. Quindi sapeva che questa potenzialità della musica potesse in fondo schiacciare, nella sua applicazione alle immagini, le immagini stesse. Infatti diceva che la musica andava gestita, bisognava andarci con i piedi di piombo, come se potesse oscurare il film. In un film, quando la musica deve avere il suo slancio bisogna darglielo, in tutto il resto bisogna stare attenti a non dargliene troppo, altrimenti la musica diventa debordante, diventa un racconto sovrapposto a un altro racconto ottenendo il risultato paradossale di dare ai due racconti, che dovrebbero nascere dalla stessa radice, un risultato completamente diverso, depotenziando l’uno e l’altro. Era molto attento a questo. A volte i registi gli facevano vedere il film già finito senza che lui avesse detto nulla. Lui acchiappava immediatamente gli elementi da cui tirare fuori le sue idee. Poteva essere un suono o una battuta o un aggettivo detto da un attore o un’attrice. Lui si agganciava lì e costruiva la sua partitura ma non si ispirava mai a cose esterne al film. Era sufficiente che in una scena l’attrice spezzasse il vetro di una finestra e lui pensava che quella potesse essere la ferita del personaggio e sul suono del vetro spezzato costruiva tutta la partitura. Poi il pubblico non necessariamente doveva capirlo. Ma lui doveva sapere di aver costruito la partitura musicale coerentemente all’essenza del film, sia pure legato ad un solo elemento, ad una sola radice, ad un suono.

Ultima domanda: il rapporto tra pandemia e creatività.

Questo contesto in cui ci siamo trovati tutti è ovvio che ha condizionato tutto, il nostro modo di comportarci, ha condizionato la nostra vita concreta, figuriamoci la nostra vita interiore e la nostra creatività. Io ho molta paura che questi condizionamenti possano essere accettati definitivamente. Mi piace sperare di riuscire a mantenere la capacità di avere momenti di spensieratezza come li potevo avere prima della pandemia. Perché se non si riuscisse a preservare la nostra capacità di essere spensierati sarebbe un disastro, il nostro modo di pensare si omologherebbe, per usare un termine molto caro a Pasolini, a cifre troppo malinconiche, troppo tristi. Come dobbiamo dirci che non è possibile cancellare la sala cinematografica dalla nostra vita, dobbiamo anche esercitarci a far sì che certi modi di pensare, certi modi di comportarci, certe nostre sensibilità non possono scomparire, le dobbiamo educare.

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