Enzo, di Laurent Cantet e Robin Campillo

-------------------------------------------------
SCRIPT SUPERVISOR/SEGRETARIA EDIZIONE il corso online!

-------------------------------------------------

L’ultimo progetto di Laurent Cantet, portato a compimento da Robin Campillo, è un altro, lucidissimo film sul bisogno e l’impossibilità di trovare un posto nel mondo. CANNES78. Quinzaine des Cinéastes

--------------------------------------------------------------------
Corso online MONTAGGIO AVID, dal 19 giugno

---------------------------------------------------------------

Forse occorre ribadirlo e preferiamo parlare al presente. Perché, come direbbe Enzo, l’opera è lì, resta, nonostante “le tempeste e gli tsunami” della vita. Laurent Cantet è uno degli autori più lucidi e centrali degli ultimi decenni. Lo è per come racconta la trasformazione e la deriva dei rapporti di classe, lo smarrimento degli individui in una società che pretende le definizioni, i ruoli prestabiliti, i percorsi netti di formazione e affermazione, ma che, in realtà, evapora sempre più nel fuori fuoco. Per il modo in cui è capace di raccontare le complicate dinamiche delle relazioni a partire dalle contraddizioni dell’anima, ma soprattutto rintracciando tutte le premesse e implicazioni politiche sottese. Senza schemi ideologici o prese di posizione prestabilite. Anzi… il nodo di questo cinema e di queste storie sta proprio nella difficile, inquieta, forse impossibile ricerca di una posizione. Sarà per questo che molti personaggi dei suoi film sono adolescenti o giovani all’inizio della loro avventura. Da Risorse umane a L’atelier, passando per La classe, ovviamente, e Foxfire.

Ed Enzo si inserisce perfettamente in questo percorso. Perciò è a pieno titolo un film di Cantet. Pensato, scritto e preparato prima che l’aggravarsi delle condizioni di salute gli impedissero di dirigere le riprese. Giusto un attimo prima della morte, avvenuta lo scorso giugno. E così in fase di realizzazione è intervenuto l’amico di sempre, Robin Campillo, montatore e cosceneggiatore abituale dei suoi lavori. Che ha accettato, con la collaborazione di Gilles Marchand, il difficile compito di portare a termine il progetto. Ben consapevole di non essere in grado di girare un film per “procura” né di poter, semplicemente, sovrapporre il suo sguardo alla visione di Cantet. Che rimane intatta, in tutta la sua lucidità e coerenza, nonostante nelle immagini si avverta il tocco di Campillo, per forza di cose unico e differente. Il risultato è, a tutti gli effetti, un film che risponde a un duplice sguardo. E soprattutto pensato e realizzato “a quattro mani”. Letteralmente. Cinema che ha per obiettivo innanzitutto la materialità dell’agire. Per costruire qualcosa che sopravviva all’immagine del disastro.

-----------------------------------------------------------------
SCUOLA DI CINEMA SENTIERI SELVAGGI, scarica la Guida completa della Triennale 2025/2026

-------------------------------------------------

Siamo di nuovo a La Ciotat, là dove la storia del cinema è partita (o meglio è arrivata, entrando in campo). E dove già Cantet aveva ambientato L’atelier, altro ritratto di un adolescente inquieto e turbolento. Enzo ha 16 anni e lavora come apprendista muratore. Eppure non ne avrebbe alcun bisogno. È cresciuto in un contesto privilegiato, in una famiglia agiata, moderna e aperta, che vive in una fantastica villa con piscina, con una splendida vista sul mare. Il suo percorso naturale sarebbe continuare gli studi, come il fratello maggiore, diventare un professionista o, magari, coltivare il suo talento per il disegno. Tanto più che il lavoro di cantiere non sembra far per lui. Eppure Enzo è intransigente. Il suo rifiuto della scuola è una specie di rigetto di un sistema educativo in cui non si identifica. Così come è netta la distanza dal suo ambiente familiare, da quella vita “felice” in cui i problemi sembrano non esistere. Si lega in maniera particolare a un operaio ucraino, Vlad, poco più grande di lui. E avverte la nascita di un sentimento che fa fatica a trattenere. Ma, ecco, Robin Campillo ci tiene a ribadire come Enzo non sia “in alcun modo, un film sul coming out”. Semmai un film sulla ricerca tormentata di una guida, di un modello da seguire, di un’appartenenza forse. Di certo, racconta il bisogno di un legame che sia innanzitutto di trasmissione. Problema profondamente inscritto nel cinema di Cantet. Una trasmissione sempre difficile, quasi impossibile, nel conflitto “politico” tra le generazioni, nelle fratture della lingua e, quindi, del pensiero, nella meccanica di un sistema che regola in maniera definita il limite tra le funzioni e l’inutilità della disfunzione. E che manca anche qui, nonostante l’attenzione e l’amore dei genitori di Enzo, la tenerezza e disponibilità della madre (una radiosa e solare Élodie Bouchez), o la preoccupazione sincera, i goffi gesti di affetto e di comprensione del padre Paolo (un grande Favino, nonostante o forse proprio grazie al “problema della lingua”). È un bisogno di trasmissione che si manifesta innanzitutto attraverso la tensione dei corpi, il desiderio e la riluttanza di un contatto. Ed è qui che Robin Campillo mette in gioco i battiti, tutta la sua sensibilità, la sua attenzione per i gesti, l’infinita gamma delle emozioni che risalgono dai muscoli, dagli organi, fino a muoversi a fior di pelle.

Per il resto, come molti personaggi di Cantet, Enzo non suscita particolare simpatia. È come bloccato nel suo gorgo emotivo, in una specie di tormento cupo e muto, incapace di espressione. Se non nell’esplosione di qualche gesto plateale, nel disagio che si manifesta nell’eccezione di un’azione apparentemente incomprensibile. “Non mi piace come ci guardi. Me ne accorgo del tuo disprezzo”, dice Paolo al figlio. Ma quello di Enzo non è disprezzo. Perché nel volto che sembra rifiutare ogni espressione e che pure mantiene una sua profonda intensità di Eloy Pohu è immediatamente palpabile una sensazione di estraneità, una condizione di esilio. Quella di chiunque sia alla ricerca febbrile di una posizione da cui poter guardare le cose, di una prospettiva chiara su cui costruire l’emploi du temps e trovare una strada. Qualunque essa sia. “Qual è il tuo posto?” È la domanda su cui si chiudeva Risorse umane, sul primo piano di Jalil Lespert. E qui si finisce su un altro primo piano e sull’ennesima domanda senza risposta. Ma quanto sono straordinari questi punti interrogativi?

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
Sending
Il voto dei lettori
0 (0 voti)

UNICINEMA scarica la Guida completa della Quadriennale di Sentieri Selvaggi


    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative



    BORSE DI STUDIO per LAUREATI DAMS e Università similari