Erasing Frank, di Gábor Fabricius

In concorso alla Settimana Internazionale della Critica un esordio che lavora sulle immagini e la forza della musica per sollevare un sentimento d’oppressione contro il potere e i regimi totalitari

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La musica che inneggia e unisce più persone sotto un sentimento comune che si fa grido, protesta, contro un regime totalitario che punisce i sovversivi, sani o malati che siano, rinchiudendoli in reparti psichiatrici. In uno spazio-tempo volutamente non ben definito – siamo in realtà in Europa orientale in un anno, il 1983, che viene rivelato a metà film – si muove il giovane Frank (Benjamin Fuchs), cantante di un gruppo punk che con i testi delle sue canzoni urla quello che non si potrebbe dire, quello che viene messo a tacere perché ritenuto dal sistema scomodo o lesivo dell’immagine dello Stato. Così i concerti della sua band non sono ammessi dalla polizia che li definisce atti “barbarici” e Frank viene rinchiuso e trattato alla stregua di un paziente con problemi mentali, insieme a tanti altri che hanno espresso la propria fede politica.

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Fabricius, che con Erasing Frank firma il suo lungometraggio d’esordio, ha un approccio quasi distopico nei confronti della Storia perché descrive attraverso un lavoro d’astrazione sulle immagini (a cominciare dalla fotografia pastosa in bianco e nero di Tamás Dobos) un sentimento d’oppressione piuttosto che l’evento in sé. Non c’è mai respiro in una città di cui si vedono pochi spazi, perlopiù al chiuso (una galleria, la metropolitana); e anche quando c’è un’apertura sulle strade, queste sono sormontate da edifici che delimitano il raggio di visione e d’azione. Sullo sfondo si rincorrono rumori di aerei e sirene che danno il senso di una minaccia costante.

Gli interni sono invece concepiti come una scena teatrale continua, senza possibilità d’interruzione tra un ambiente e l’altro; sembra un viaggio nei labirinti burocratici di Kafka, i personaggi in qualche modo sanno già di essere condannati. Frank lotta, si rifiuta di cedere e fa di tutto per portare almeno la sua voce fuori dal confine – “la musica è politica”, del resto.

Fabricius è molto attento ad assecondare il ritmo della narrazione con movimenti di macchina che ne seguono il flusso: concitati, ora sommessi; la camera sobbalza freneticamente da una parte all’altra o spesso resta fissa sui silenzi del protagonista. Perché ci sono poche parole in Erasing Frank; i dialoghi, essenziali, sono quel più per dare allo spettatore le coordinate principali per avanzare, comunque a tentoni, in un abisso. Il regista però, con coerenza, non arriva a spingersi fino in fondo e alla fine illumina la scena-palco con una luce anch’essa sospesa, non sappiamo se artificiale o naturale.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8
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Il voto dei lettori
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