Escape, di Lee Jong-pil
La diserzione di un soldato della Corea del Nord che fugge verso il democratico Sud diventa un teso action-thriller, godibile sia a livello particolare che universale. Florence Korea Film Fest 2025

La democrazia come possibilità di fallire una prima volta, riprovare una seconda e magari venir meno di nuovo, meglio in questa occasione. Sembra di poter sentire gli echi di uno dei più citati aforisma di Beckett nelle parole del sergente nordcoreano Lim Kyu-nam, soldato che dopo aver militato per dieci anni nell’esercito della Corea del Nord, diserta per riparare verso il democratico Sud della penisola asiatica. Braccato in maniera feroce dall’ufficiale Li Hyun-sang, quando questi lo raggiunge il disperato protagonista fa infatti appello proprio alla libertà di poter sbagliare come principio fondativo del sistema statale che sta inseguendo a costo della sua stessa vita. Ma prima di lasciarsi andare al retorico dialogo tra i due antagonisti che porta a saturazione le tensioni latenti, Escape fa un giro di genere accidentato e imprevedibile come quello compiuto da Lim Kyu-nam per arrivare a passeggiare cullato dalle luci metropolitane di Seul e aver ottenuto un finanziamento governativo per un suo progetto imprenditoriale ad appena un anno dal suo ingresso in Corea del Sud: anche se questo è un discorso che andrebbe ampliato, questa chiusa iper-ottimista apre uno squarcio sul lavorio di cooptazione culturale che la parte democratica fa verso il fratello autoritario (si veda inoltre il finale pastelloso a casa della sorella e della madre di Kim Dong-hyuk e la sequenza sul telefono con cui i disertori, poco prima del confine, possono chiedere aiuto ai vicini). Il quarto lungometraggio del regista sudcoreano è un action-thriller che, per gran parte dei suoi 94 compattissimi minuti, finge di eludere la questione politica che sta dietro la scelta di un soggetto così smaccatamente orientato, facendosi invero guidare dagli scossoni di un piano di fuga basato sulla mappa delle mine disegnata in uno sgualcito pezzo di carta (nel 2025?).
Insistendo sugli stilemi degli escape movie – il diabolico villain dalle micidiali capacità logistiche, il compagno di fuga destinato al martirio sin dalla prima apparizione, l’incontro fortuito ma pregnante col gruppo di donne nomadi -, il film cosparge quindi di narratività una vicenda che è stata, invece, ispirata da vicende reali. La regia di Lee Jong-pil però è quasi sempre molto sottile perché, anche prima del retorico finale, dietro la cortina di fumo del suo montaggio frenetico, della tonitruante colonna sonora e dei soliti picchi di cattiveria fumettistica riesce a far emergere il clima mefitico che si respira in Corea del Nord. In fondo, tutta la vicenda prende l’abbrivio proprio dalla cieca e quindi inetta sottomissione che Li Hyun-sang deve al leader supremo Kim perchè se nel suo messaggio registrato si avvertiva minacciosamente che “i disertori non esistono nel mio libro”, i due compagni fuggiaschi non potevano fucilarsi seduta stante ma si doveva mettere in piedi la pantomima su un eroe che ha fermato il suo infingardo commilitone. Escape funziona meglio in questa dimensione di denuncia sotterranea piuttosto che in quella più apertamente contestataria: la sottotrama dell’ufficiale costretto a reprimere il suo talento da pianista e la storia omosessuale con un giovane ragazzo in Russia sono intinte in un ribellismo manierato che non smuove più nessuna coscienza. Costringere un uomo a fare fortuna nell’esercito di Pyongyang piuttosto che essere un anonimo cittadino di Seul è già abbastanza castrante e terribile.