Eternità dell'attraversamento: la bicicletta, la luna, l'incanto. "E.T." di Steven Spielberg

Esce nelle sale, quasi subito dopo “A.I.”, il vecchio/nuovo film di Steven Spielberg. Ancora creature artificiali all’interno di una fiaba che sembra quasi rimandare allo Spielberg d’inizio anni ‘80

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1982/2002. Sono vent’anni. Cos’ha girato Spielberg all’inizio degli anni '80? Non lo sappiamo. Il buco nero è difficilmente copribile. Ci areniamo di fronte all’impossibilità di etichettare quell’anno con un’opera, con un titolo. “Artificial Intelligence” allora. Parliamo dello scorso anno. Una delle opere più strazianti e lancinanti dell’ultimo periodo. Un’ennesima mutazione di quel corpo del desiderio che in Spielberg non è solo cinema, ma anche gesto d’amore nei confronti del reale. Lo stesso che pare venir fuori da questo strano “E.T”, appena uscito nelle nostre sale. Non ne sappiamo nulla, ce lo siamo trovati così per caso, senza alcun preavviso. E' la storia di un extraterrestre, piovuto sulla Terra per caso. E’ il racconto di formazione di alcuni bambini che cercano di proteggerlo, scontrandosi con le autorità locali. La magia dell’incontro con il diverso non cambia. Spielberg sa come filmarla la distorsione oculare di chi si fa abitante di ogni diversità di sguardo. L’occhio del piccolo protagonista non è incredulo, non è frastornato, non è nemmeno sorpreso. L’ammasso di carne che gli si prospetta davanti non chiede pietà, non ispira pena, ha bisogno di un po’ di aiuto per tornare dove viene. Il contrario di “A.I.” praticamente. Là si trattava di un corpo alla disperata ricerca di un appiglio definitivo a questo reale. Qui la struttura della rappresentazione pare mimare invece un andamento assolutamente centrifugo. Dal centro dello spazio, allo spazio di un centro desautorato di ogni ombra evocativa. Il mistero dell’universo pare racchiudersi nel giro di un disadattamento continuo ad una dimensione che continua a rimanere estranea. Come estraneo è il tempo insito nella rappresentazione: non presente, non passato, ma nemmeno futuro. Dimensione intermedia forse, segnata da un’oscillazione perenne tra l’essere del dato visibile e la traslazione di questo nella sospensione artefatta di senso. Il termine chiarificatore non esiste. Tempo della favola allora. E’ probabile, ma non ne siamo del tutto certi. Spielberg ci ha abituati a strani incroci tematici, pronti ad esplodere nel mezzo della narrazione quando meno te lo aspetti. Vedere “Incontri ravvicinati” per credere. A proposito, “Incontri ravvicinati”. Anche lì si parlava di spazio, di luoghi inesplorati, di creature non meglio identificate pronte a far capolino solo nella parte finale. Qui si tratta invece di un visitatore che campeggia sin dall’inizio. Ecco una prima traccia quindi. Il diverso assimilato all’uguale. Per i piccoli protagonisti è uno di loro. Per noi pure. Facciamo fatica a vederlo con occhi diversi. Torniamo allora all’interrogativo posto in precedenza. Fiaba o semplice racconto?. Propendiamo decisamente per la seconda. Non riusciamo a definire in maniera diversa la commistione bruciante di distanza del corpo e vicinanza del sentimento, irrealtà descrittiva e verosimiglianza segnica. Agisce sul quotidiano Spielberg. La magia della visione nasce da qui. Una assonnata provincia americana, un gruppo di ragazzini portatori di un’innocenza preclusa al mondo adulto, la collisione tra la materialità della scoperta e astrattismo neoromantico del mantenimento di questa. Non stiamo parlando del racconto in sé, o meglio della fiaba. Ma dello scarto immediato che si registra tra l’andamento obbligato della vicenda e la sua traslazione in ardente artificio retorico che ci proietta nel bel mezzo della visione, attonito occhio che vorrebbe recitare una parte nel grande rituale della favola che rigenera se stessa con l’archetipo stesso della finzione. Immaginare un mondo, reinventarsi un corpo, essere visione insomma. Lo sguardo strabico del piccolo essere, incapace di assistere alla rappresentazione perchè è egli stesso rappresentazione, trae la propria ragione d’essere proprio da questa volontà di porsi ai margini del narrato, pur restando centrale e perfettamente equidistante dalle parti in gioco. La titolazione è indicativa di questo stato di cose. L’extraterrestre non ha nome, non può avere nome. La genericità del suo appellativo rivela questa presenza/assenza all’interno di un terreno spaziale che è casa, quotidianità, abitudini domestiche, infanzia difficile. Lo spazio stellare può venire filmato solo dalla finestra di una camera da letto perpendicolare alle galassie celesti. Ma eravamo rimasti alla fiaba. Ci sentiremmo di aggiungere ipotesi narrativa che abbraccia l’universo infantile rinunciando alla supervisione smaliziata di un altro occhio, un occhio che ha già visto. 1982. Torna l’anno del vuoto. Lo riempiamo subito con il replicante Hauer che ha visto cose che gli umani nemmeno immaginerebbero. Ecco il punto allora. Spielberg rinuncia all’onniscienza del narratore. La partecipazione all’evento non può che consumarsi in attesa di uno scioglimento ignoto. Spielberg/ET. Non ci sono replicanti che tengano. La sua fantascienza è sguardo d’amore sulla natura incondizionata e atemporale del sentimento. I piccoli protagonisti cercano di proteggere il loro amico, riescono a fuggire all’inseguimento della polizia. La bicicletta corre veloce sull’asfalto, gli inseguitori sembrano lontani. Si alza da terra poi, attraversa il cielo, entra nel campo visivo di una luna che domina placidamente la prospettiva. Non più favola, non più racconto, non più cinema. Remake disperato e vitale di un desiderio di perdita che ci aveva già catturato all’inizio degli anni ‘80. 1982/2002. Il vuoto ha ora un nome. Incantesimo del pianto, commozione del sentimento.Titolo originale: E.T. – The Extra Terrestrial
Regia: Steven Spielberg
Sceneggiatura: Melissa Mathison
Fotografia: Allen Daviau
Montaggio: Carol Littleton
Musica: John Williams
Scenografia: James D. Bissell
Creatore E.T.: Carlo Rambaldi
Supervisore effetti speciali: Dennis Muren
Interpreti: Dee Wallace (Mary), Henry Thomas (Elliott), Peter Coyote (Keys), Robert McNaughton (Michael), Drew Barrymore (Gertie), K. C. Martel (Greg), Sean Frye (Steve), Erika Eleniak (ragazzina)
Produzione: Steven Spielberg, Kathleen Kennedy
Distribuzione: U.I.P.
Durata: 115’
Origine: Usa, 1982/2002

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