Eterno visionario, di Michele Placido

Questo viscerale viaggio tra i fantasmi di Pirandello assomiglia a un enorme film specchio, in cui scorgiamo il riflesso dei demoni di Placido e del suo cinema.

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Abbiamo passato insieme molto tempo…”, dice timidamente Michele Placido, rivolgendosi al suo Pirandello. Così diventa all’improvviso chiaro il motivo per cui si sia ritagliato il ruolo dell’agente letterario Saul Colin. Per concedersi questo tentativo di aprirsi al Maestro, per confessare un debito di riconoscenza e, magari, rivendicare l’orgoglio di una lunga frequentazione. Ma ancor più, forse, per svelare il suo riflesso tra le forme ellittiche, barocche di questo enorme film specchio che è Eterno visionario.

A cominciare dalla tormentata dichiarazione d’amore per il teatro e il mondo della rappresentazione. Passione che Michele Placido conosce bene, e che, da questa prospettiva, sembra quasi una pratica devozionale, da mettere in atto con la pancia e il cuore ancor prima che con la testa. Non è un’esperienza intellettuale, o almeno non semplicemente. Ma riguarda le sensazioni a fior di pelle e il gorgo delle emozioni, è qualcosa che cresce innanzitutto attraverso il corpo. Qualcosa di concreto, come dice lo stesso Pirandello, invasato dal primo incontro con Marta Abba: “il teatro si fa”. E anche se in un’indiretta risposta a Croce parla della necessità del momento intellettuale dell’arte, la consapevolezza del concreto non viene mai meno. Il che non significa sminuire la portata della riflessione, ma ricordare l’urgenza che la sostiene. E questa concretezza, ci sembra, riguarda anche il modo di intendere il cinema da parte di Placido. Da sempre e sempre più.

Proprio come L’ombra di Caravaggio, dunque, anche Eterno visionario è un film carnale. Di corpi che si sfiorano e si toccano, che si agitano sul palcoscenico o si scontrano nella vita, che si manifestano nella piena luce della loro grazia rigogliosa o nei segni impietosi del crepuscolo, in tutta la loro bellezza o nella loro volgare bestialità. E questa carnalità non viene smentita dal fatto che si tratti di un film pieno di fantasmi. Anzi. Perché i veri fantasmi non sono immagini evanescenti di un’idea. Ma visioni che risalgono dal profondo e che si nutrono del sangue del vissuto. I fantasmi sono diventati demoni

Per certi aspetti, viene in mente Qui rido io di Mario Martone. Forse per la vicinanza dell’ambientazione, per certi umori, per questo gioco continuo tra il palcoscenico e la vita. Ma per Martone ogni film è innanzitutto un viaggio personalissimo nella Storia, nella sincronia o nell’anacronismo liberatorio delle intuizioni, delle idee e dei sentimenti. Per Placido è un’esperienza viscerale, che porta con sé il rischio del deragliamento e in cui la Storia si deforma sotto la carica pulsionale del suo sguardo e dei suoi personaggi.

Eppure in Eterno visionario, la Storia è ben presente, ha una densità che prende forma a partire dell’immaginario, trasuda di suggestioni futuriste e art déco, di vibrazioni ragtime a cui fanno da contraltare le canzoni alle Kurt Weill che risuonano nella notti Berlinesi della Repubblica di Weimar. Ma è altrettanto vero che il percorso nel tempo costruito dalla sceneggiatura di Placido, Matteo Collura e Toni Trupia, è sfacciatamente tortuoso. Dalla prima scena, in cui Pirandello attende nervosamente Marta Abba sulla banchina della stazione di Amburgo, mentre è in viaggio verso Stoccolma per ritirare il Premio Nobel. È il novembre del 1934, ma da lì si passa agli inquieti anni domestici, durante la prima guerra mondiale, con la lontananza del figlio Stefano, Stenù, partito per il fronte, e la follia ormai incontrollabile della moglie Antonietta Portulano. Passando poi per la contestata prima di Sei personaggi in cerca d’autore, per la nascita della Compagnia del Teatro d’Arte di Roma, tra le ombre del fascismo, per la rappresentazione di Nostra Dea di Massimo Bontempelli nel 1925 e di Diana e la Tuda nel 1927, per i viaggi in Sicilia e le derive di Berlino.

Questo intricato movimento sembra seguire i ricordi e i fantasmi di Pirandello. Ma è anche la conseguenza più naturale dell’approccio viscerale di Placido, che pare voler affrontare innanzitutto i suoi demoni, personali e artistici. E poco importa se tutto ciò può tradursi in eccessi, in uno squilibrio compositivo, in momenti sovraccarichi in cui la recitazione rischia di mangiare la verità che c’è dietro. Perché ciò non toglie che il film cresca di intensità scena dopo scena. Fino a diventare quasi intollerabile, per quanto è pieno, struggente, a partire dal monologo di Fabrizio Bentivoglio allo specchio, il momento in cui lo sguardo dell’autore e le espressioni dell’interprete arrivano finalmente a incarnare il personaggio. Per poi lasciarsi definitivamente andare in tutta la fuga berlinese, tra le immagini di archivio che tentano di riprendere sangue in un abbozzo di colore, la straordinaria apparizioni di Ute Lemper, gli smarrimenti dell’esilio. Fino all’epilogo… E sembra davvero che il senso sia racchiuso nel discorso di ringraziamento di Pirandello all’Accademia di Svezia. “Per riuscire nelle mie fatiche letterarie ho dovuto frequentare la scuola della vita. Questa scuola, inutile per certe menti brillanti, è l’unica cosa che può aiutare una mente come la mia… simile a quella di un bambino… Mi piacerebbe credere che questo premio sia stato conferito non tanto alla perizia dello scrittore, che è sempre irrilevante, quanto alla sincerità umana del mio lavoro”. Ecco, la vita si riprende tutto. E questo, forse, andrebbe sempre ricordato.

 

Regia: Michele Placido
Interpreti: Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi, Federica Luna Vincenti, Giancarlo Commare, Aurora Giovinazzo, Michelangelo Placido, Michele Placido, Mino Manni, Anna Gargano, Marcello Mazzarella, Dajana Roncione, Guia Jelo, Edoardo Purgatori, Ute Lemper
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 112′
Origine: Italia, Belgio 2024

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
Sending
Il voto dei lettori
3.1 (10 voti)
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