Eureka, di Lisandro Alonso

Al di là del desiderio di stabilire una continuità tra le sue immagini, è chiaro che Lisandro Alonso lavora soprattutto di spiazzamenti. Un cinema dello spazio più che del tempo. Cannes première

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Si riparte dal western. Viggo Mortensen è Murphy, un misterioso pistolero alla ricerca della figlia scomparsa. Arriva, con gran fatica, in un villaggio desolato, apparentemente popolato solo da ubriaconi e prostitute e in un saloon ha un confronto con una donna (Chiara Mastroianni), che sembra avere tutte le risposte che sta cercando. Poi comincia a fare piazza pulita. Ci rendiamo conto ben presto che siamo arrivati a cose già iniziate. Anzi, a un passo dalla fine. Quando la macchina da presa arretra, si svela che quelle immagini non sono altro che parte di un flusso televisivo. Catturate a caso, in un pigro zapping, vengono interrotte brutalmente dalle previsioni del tempo, che annunciano il grande freddo del Sud Dakota.

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Certo, per chi è abituato al cinema di Lisandro Alonso, si tratta di immagini familiari, visto l’immediato collegamento con Jauja: l’ambientazione, la traccia narrativa, la presenza di Mortensen, quel quattro terzi che costringe il quadro in una gabbia catodica. Ma i programmi cambiano. Con un’indifferenza assoluta. E così ci ritroviamo nella riserva Lakota di Pine Ridge, percorsa in lungo e largo dall’agente di polizia Alaina, che, nel suo turno tra la notte e l’alba, si imbatte in una serie di richieste d’intervento. Litigi domestici, automobilisti ubriachi, spari nella stanza del casinò. Niente di trascendentale: piccole storie “insignificanti” di desolazione e marginalità. Ma a un certo punto, Alaina smette di rispondere alla centrale e fa perdere le sue tracce. Potrebbe partire una ricerca. Ma no, l’obiettivo si sposta sulla giovane nipote Sadie, anche lei esausta. Va dal nonno, probabilmente l’ultimo saggio della riserva, e decide di sottoporsi a un incantesimo…

È lo spazio che conta. Il tempo è solo un’invenzione dell’uomo”, dice il vecchio nonno.  Ed è una dichiarazione “poetica”, oltre che una visione del mondo. Perché, al di là del desiderio di stabilire una continuità percettiva, prima ancora che logica, tra le sue immagini, è chiaro che Lisandro Alonso lavora soprattutto di spiazzamenti. Nella forma e nella sostanza. I suoi sentieri indiani si biforcano e aprono altre dimensioni, dove i tempi si confondono in una stratificazione unica, condensazione in un piano dello spazio. Sì certo, i rimandi interni sono costanti: le tracce di Jauja, la riapparizione di Chiara Mastroianni dalle immagini del film in TV alle ricerche per un western da fare in Sud Dakota, il grande uccello che attraversa i luoghi e i decenni… Ma sono solo segni di un esoterismo apparente, che non contempla livelli di iniziazione e percorsi di salvezza. E se nella sostanza politica di Eureka, c’è la vicenda dei nativi, da una parte all’altra dell’America, è una storia di sradicamenti, spoliazioni, appropriazioni indebite, marginalizzazioni. Cioè di interventi violenti sullo spazio di appartenenza.

Così, coerentemente, quello di Lisandro Alonso è un cinema dello spazio, prima ancora che del tempo. Non è tanto questione di linee di svolgimento, quanto di piani dell’inquadratura, campi controcampi, fuoricampi. Non c’è dramma né tragedia, quindi non c’è linea di progressione né catarsi. È un movimento fatto di giri a vuoto e allontanamenti. Misura distanze, si abbandona in fughe senza direzione e ricerche senza fine. Non sembra riconoscere all’orizzonte un’evoluzione o un’involuzione. La sua tensione riguarda l’infinito più che l’eterno, il limite che non può essere racchiuso dallo sguardo. Nessun “eureka” è, in realtà, possibile. La verità può essere solo intuita. Non è rivelata né scoperta. Al massimo è un’invenzione.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.9
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Il voto dei lettori
5 (2 voti)
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