Eurovision Song Contest: storie da un fuoricampo impossibile

L’Eurovision 2022 racconta un’Europa priva di un’identità definita che tuttavia, invece di lavorare a partire da questa diaspora si rifugia in una facile fascinazione per il massimalismo USA

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Diodato inizia a suonare seduto al pianoforte. È emozionato ma regge bene, dopotutto sta preparando questo momento da due anni. Quando il brano entra nel vivo, si alza, si allontana dal pianoforte e raggiunge il centro del palco. Quando Fai Rumore erompe nella seconda strofa, il cantante si muove attraverso un gruppo di ballerini che sottolineano con i gesti le svolte del brano. Al ritornello il brano perde volutamente il controllo. Il palco si alza e fuochi pirotecnici vengono fatti partire dallo sfondo. Poi, man mano che Fai Rumore si avvia alla fine, l’interazione tra il cantante ed i performer attorno a lui si approfondisce: Diodato viene circondato dai danzatori, contribuisce addirittura alla coreografia.

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L’esibizione culmine della prima semifinale dell’Eurovision torinese è deflagrante. Per certi versi il pubblico è appena stato testimone della nascita di un nuovo ibrido artistico: da un lato c’è l’indie italiano, erede più o meno riconosciuto della musica leggera italiana, dall’altro c’è un’idea di danza contemporanea difficilmente conciliabile con esso, protesa com’è alle performance live massimaliste di Kanye, Madonna, Jennifer Lopez, Beyoncé.

Fai Rumore all’Eurovision lascia evidentemente scoperta una delle ambiguità maggiori con cui si confronta la manifestazione canora almeno da una ventina d’anni.

Perché se è vero che la più importante gara canora d’Europa ha avuto fin dall’inizio problemi di referenzialità, a tal punto che è essa stessa un clone dichiarato del nostro Festival di Sanremo, ora la situazione pare mutata.

Viene in effetti da chiedersi che tipo di identità e di contesto socioculturale voglia raccontare l’Eurovision attraverso i suoi brani, perché se lo spazio su cui desidera riflettere la manifestazione è quello europeo, qualcosa, evidentemente, non torna.

Sempre meno pezzi, ad esempio, sono cantati nella lingua nativa dei performer e dei gruppi. Si privilegia, piuttosto l’inglese, sorta di lingua franca dell’arte sempre più pervasiva a tal punto che, nell’edizione 2022, tra i venticinque finalisti, più della metà la scelgono per le loro esibizioni (e spicca la Romania che canta in un mix di inglese e spagnolo).

È un’enormità. L’identità europea rimane sempre più sullo sfondo, costantemente sballottata tra l’inerte funzione di rappresentanza de Il Volo, ospiti d’onore della seconda semifinale e l’approccio strumentale di chi vede nella comune cultura europea solo il viatico per la vittoria: Europe’s Living A Celebration, cantava nel 2002, ad esempio, la spagnola Rosa: ma vale la pena ricordare anche i “nostri” Toto Cotugno ed Enrico Ruggeri, che, rispettivamente, nel ’92 e ’93, cantarono Europa ’92 e Sole D’Europa.

Ma c’è chi va oltre e riduce lo spazio europeo a semplice dimensione da cartolina folkloristica che fa capolino nei video promozionali dei singoli come accade, ad esempio, nel video per Andromache di Ela, girato nei pressi tra le foreste di Cipro.

Considerato finora il trionfo dell’eccesso televisivo e musicale, l’Eurovision estremizza il suo rapporto con lo spettacolo forse più come un diversivo, per proteggersi, per evitare di specchiarsi nell’abisso.

Tutto inizia forse da un problema pragmatico. Perché la difficoltà di attirare pubblico che ha contraddistinto l’Eurovision in passato è sempre stata evidente. Solo in Italia, appena sette anni fa, la finale andava in onda su Rai 5, faceva appena il 4%. Nel 2021 tutto si è spostato invece su Rai 1, ha fatto il 25% di share e si è rapportata ad una spettatorialità radicalmente diversa dal passato.

L’Eurovision ha evidentemente affinato il suo senso dello spettacolo alla ricerca di qualcosa di più leggibile, riconoscibile da tutti, spingendosi, tuttavia, in spazi pericolosi, quelli, appunto, dell’immaginario pop massimalista americano. E allora la scelta dell’inglese come esperanto è solo la punta dell’iceberg di uno spettacolo che in realtà replica quasi pedissequamente le dinamiche e i linguaggi dell’intrattenimento d’oltreoceano, a partire dal setup della conduzione, passando per i tempi rapidi della kermesse arrivando fino ai momenti più distensivi (cos’è, in fondo, l’esibizione di Diodato se non il dichiarato Half Time Show dell’Eurovision?).

In prospettiva, l’Eurovision è dunque lo zenith della globalizzazione, l’apice negativo di un processo che, invece di guardare al dialogo, alla felice ibridazione tra culture, tradizioni, influenze altre, si accontenta di soffermarsi su un fuoricampo impossibile, quello ipercapitalista d’oltreoceano, lontanissimo dalla natura profonda della manifestazione.

Forse, almeno in parte, siamo comunque noi i responsabili di questa sua curiosa degenerazione, che negli ultimi tempi, ha finito per coinvolgere anche gli spazi sonori della manifestazione. Nel 2019 in gara c’è infatti Mahmood, che con Soldi cerca la folle sintesi tra la periferia italiana e l’immaginario sonoro trap americano. Il risultato è un brano caratterizzato da un equilibrio che dà speranza alle nuove generazioni ma che è evidentemente delicatissimo da maneggiare. Proprio i Maneskin, in effetti, all’Eurovision del 2021 perdono volutamente il controllo e raccontano un’Italia della musica che finge di guardare avanti ma che in realtà si trincera facilmente dietro ad un passato glorioso e ad un linguaggio che guarda ai Red Hot e a decine di altri gruppi che formano il patchwork su cui si fonda il linguaggio del gruppo. I Maneskin svelano dunque i loro debiti con il fuoricampo impossibile, uno spazio legittimato, tra l’altro, dalla loro vittoria.

E così l’Eurovision 2022 è davvero l’Armageddon dell’American Way Of Life del fare musica, una sequela di performer sempre più copy of a copy, per dirla con Trent Reznor, degli artisti che dominano le Top di Spotify.

Ecco quindi che le due anime delle californiane Haim, quella folk e quella rock 70s, sono ben sintetizzate rispettivamente dalle islandesi Systur e dalle danesi Reddi, ma addirittura c’è chi è più coraggioso.

La croata Mia Dimsic arriva infatti all’Eurovision con Guilty Pleasure che, tuttavia, almeno secondo l’inconscio collettivo di internet, pare un evidente plagio di Willow di Taylor Swift.

Più rassicurante è l’approccio dell’Intelligent Music Project, band bulgara colta quasi in overdose di chitarre elettriche che si rifà evidentemente ad un immaginario rock quasi iperconservatore. E poi ancora i Circus Mircus, epigoni dello shock rock di Alice Cooper ed infine i Rasmus, che dopo aver passato i primi anni ’00 come meteore sulla cresta dell’onda, tornano dalla porta di servizio dell’Eurovision come gli ACDC, linguisticamente fermi a vent’anni fa.

 

Perché il rock, all’Eurovision è anche una disperata strategia di fuga retromaniaca, che prova a trovare la quadra tra l’approccio catchy nei confronti del pubblico ed il tentativo di non snaturarsi. È, in fondo, lo stesso processo a cui si sono sottoposti i Maneskin, ma più istintivo, naturale, nutrito dall’esperienza sul campo. E dopotutto, i Rasmus non sarebbero i soli a cercare un riparo nella tempesta, la Disco giocosa tutta synth bass degli islandesi Daði & Gagnamagnið, nel 2021 e, quest’anno, l’elegante jazz funk degli sloveni LPS tradiscono la fascinazione dell’Eurovision per certi ritmi black che sembrano un efficace piano B per non soccombere troppo platealmente alle esigenze del sistema.

Ma dopotutto la posta in gioco è davvero alta.

Il brano “da Eurovision” propriamente detto, è quasi una fredda escrescenza da algoritmo, un pezzo irrimediabilmente statico, che non prende posizione, non rilegge nessuna traiettoria e pare viaggiare tra due polarità. Da un lato c’è il pezzo “ballabile” e quindi via libera ad una dance ipersintetica che viaggia tra gli anni ’90 e i primi anni ’10 (come accade nell’austriaca Halo) ma anche incolore, che rimastica qualsiasi elemento autoctono, a tal punto che anche l’affascinante Stefania dell’Ucraina Kalush Orchestra affoga i suoi suoni legatissimi al territorio su un beat ingombrante.

Sull’altro polo c’è invece il brano “cantabile”, fondato su un linguaggio da brano pop essenziale, caratterizzato da uno spazio sonoro indistinto che è il blando accompagnamento ad un testo che, volutamente, si sposta su temi il più possibile universali. È la versione per l’Eurovision del nostro modo di intendere il tradizionale brano sanremese ed è sempre più la linea preferenziale del suono di quest’Eurovision. Lo si incontra tanto in Fade To Black, il brano dell’Azeibarjan, quanto in Saudade Saudade, della band portoghese MARO, ma persino Mahmood e Blanco non si sono sottratti alla tendenza: Brividi è in effetti, a piacere, la più trap tra le canzoni sanremesi o la più sanremese tra le canzoni trap. È la scelta più facile, quella più nazional popolare e rassicurante ma allora, forse, meglio il radicalismo della moldava Trenuletun, che si lanciano in un classico Anthem Folk accelerato che è diretto, leggibile, ma almeno è legatissimo alla loro identità.

Anno dopo anno l’Eurovision disegna un panorama desolante. Il punto non è, forse, che il fuori campo sta lentamente prendendo il sopravvento, quanto il riconoscere che una delle manifestazioni artistiche più importanti d’Europa non pare affrontare l’assenza di una vera cultura europea e lavorare a partire da questa diaspora.

A testimoniare in realtà benissimo l’approccio maldestro dell’Eurovision e di alcuni dei suoi partecipanti alla questione rimane la vicenda dell’Inghilterra, che da anni manda a competere performer incolore, ma che, in realtà, è uno dei serbatoi culturali diasporici più interessanti e vivaci del presente. Pensiamo agli Ancestors o ai Sons Of Kemet di Shabaka Hustings o a rapper come Pa Salieu che si muovono consapevolmente tra il jazz europeo e i ritmi africani e caraibici. Ma non serve spingersi fino all’underground, già la giovanissima Jorja Smith dimostra benissimo come si possa fare un pop intelligente, davvero da Eurovision, mischiando RnB, Grime e afrofunk.

Ma non è ancora il momento, gente come la Smith è ancora fuori campo, quello sbagliato, forse.

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