«Facciamo film su noi stessi» – Gianni Amelio e Luigi Lo Cascio a Torino

Abbiamo incontrato regista e attore protagonista de “Il signore delle formiche” a Torino, città di cui Amelio ha diretto il festival. Un’occasione per tornare a parlare del film su Aldo Braibanti

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Venerdì 16 settembre il Museo Nazionale del Cinema di Torino ha accolto Gianni Amelio come un figliol prodigo. L’ex direttore artistico del Torino Film Festival ha infatti incontrato la stampa e poi il pubblico durante il tour promozionale del suo nuovo film, Il signore delle formiche, dopo la presentazione in anteprima internazionale alla Mostra di Venezia. Ad accompagnarlo Luigi Lo Cascio, interprete protagonista nei panni del drammaturgo e poeta Aldo Braibanti, condannato nel 1968 a 9 anni di reclusione (dei quali sconterà però solamente una parte) per aver plagiato la mente di un ragazzo con cui per due anni aveva avuto una malvista relazione omosessuale. A parte la militanza dei giovani Radicali – ben rappresentata dalla simbolica presenza di Emma Bonino com’è oggi «perché le sue idee, come le mie, sono le stesse oggi come allora» – l’opinione pubblica dell’epoca non si scompose più di tanto e, nel mettere in scena in tratti di questa vicenda, il regista riesce a tracciare un filo agghiacciante con la contemporaneità dei diritti non riconosciuti.

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In primis, Amelio ha presenziato nella sala conferenza della Mole come testimonial di una donazione di Rai Cinema. Dopo quella del 2015 al MoMA di New York, si tratta della seconda occasione in cui la società offre ad un ente alcuni dei film più significativi della sua produzione. Oltre a La tenerezza di Gianni Amelio, troviamo Il traditore di Marco Bellocchio, Terraferma di Emanuele Crialese, Il campione di Leonardo D’Agostini, Dogman di Matteo Garrone, Martin Eden di Pietro Marcello, Il giovane favoloso di Mario Martone, La mafia uccide solo d’estate di Pif, Le meraviglie di Alice Rohrwacher, Fuocoammare di Gianfranco Rosi, Il primo re di Matteo Rovere, Educazione siberiana di Gabriele Salvatores e Il capitale umano di Paolo Virzì. Film d’autore italiani, molto diversi per linguaggi e tematiche, complessivamente apprezzati dalla critica e dal pubblico in questi ultimi anni e da ora a disposizione dei fruitori delle sale del Museo torinese.

Quindi si passa alla chiacchierata su Il signore delle formiche. Alla domanda su quali siano stati i testi consultati per entrare nel mondo di Braibanti, Amelio risponde orgoglioso: «Certe cose me le porto talmente dentro che non c’è bisogno che mi documenti». Il cineasta si portava addosso il ricordo di quanto accaduto da cinquant’anni e, tolta la trascrizione del processo, non ha dovuto leggere alcun genere di testo. Questione diversa per Luigi Lo Cascio, che ammette candidamente di aver scoperto la storia proprio grazie ad Amelio. «Ci siamo incontrati nel solito bar, che lui chiama “il mio ufficio”, e quando gli ho confessato di non conoscere il personaggio mi ha risposto di non preoccuparmi, che mi avrebbe guidato lui perché sono cose che conosce, che gli appartengono e lo riguardano personalmente». Infatti, per Amelio questo come i precedenti è un film su se stesso. A questo punto dell’incontro i due amici di lunga data si sono quindi esibiti in un piccolo sketch, divertente ma importante per il discorso che il regista porta avanti anche fuori dallo schermo.

Amelio si mette in piedi dietro Lo Cascio seduto, come Aldo fa in presenza di Ettore nel film, con le mani sulle sue spalle. «Questo è un film su di me anche perché mi appartiene la conoscenza di una certa gestualità. Questo il primo atto di seduzione di un omosessuale verso un ragazzo da cui è attratto». Lo Cascio commenta: «In effetti funziona, mi piace!». Ma a parte gli scherzi, è evidente che si tratta di un film amaro, duro e militante, soprattutto per questi tempi. «Quando avevo 16 anni una persona che consideravo una guida mi disse una cosa che è finita nella sceneggiatura: “Un omosessuale ha due strade: o si cura o si ammazza”». Assurdo che l’omosessualità fosse considerata una malattia, ma tant’è che il giovane Ettore viene sottoposto a ben 42 sedute di elettroshock in manicomio. «C’era, e c’è ancora secondo me, un pesante bigottismo all’interno delle famiglie», continua Amelio. «Se mi metto nei panni di figli e genitori oggi non posso che preoccuparmi perché entrambi saranno terrorizzati all’idea del rifiuto il primo o di non saper come reagire i secondi».

Per l’autore omosessuali non si diventa, si è, e continuare a diffondere questo verbo non potrà che avere un impatto sulla società. «Dai messaggi e dalle telefonate che ricevo, mi sto rendendo conto che i giovani magari vanno poco al cinema ma hanno ancora molti problemi da esternare… Non è vero che ci siamo liberati di tutto quel peso, da un’ingiustizia terribile che ha avuto luogo guarda caso nella data fatidica del 1968». Su questo Lo Cascio regala una riflessione: «La data della sentenza, il 14 luglio, il giorno della Rivoluzione Francese, rende bene l’idea della lezione che le istituzioni vollero dare alle nuove tendenze della contestazione». Una sorta di controrivoluzione, quindi, pensata per rispondere all’aria di cambiamento con una condanna esemplare in coda ad un processo ideologico e non a Braibanti come persona. «Forse è per questo – aggiunge l’attore – che Aldo non volle accettare lo status di martire: aveva capito che quel processo era una sorta di farsa».

Esemplificativa di ciò la scena in cui l’avvocato difensivo ride sguaiatamente in aula. Un evento improvvisato sul set, utile a mostrare poi la reazione del personaggio di Elio Germano. «Mio fratello, che è giudice, mi ha detto che se non fossi riuscito a “contenerla cinematograficamente” non sarebbe stato accettabile dal punto di vista delle procedure». Ed ecco spiegata la messa in scena, con l’uomo ridente sfocato sullo sfondo dell’inquadratura, quasi nascosto. «Non è possibile che un avvocato della difesa rida in faccia ad una corte». Grande momento di cinema, al tempo stesso grottesco e vero. Su questa linea simbolica la scelta di evidenziare il legame con Pasolini cambiando i nomi della mamma di Aldo (diventata Susanna, come quella di PPP), chiamando la militante Graziella (cugina del regista-poeta), e infine Ettore come il protagonista di Mamma Roma.

«Mentre la figura del giornalista, completamente inventata, mi è servita a mostrare la posizione della sinistra ufficiale nei confronti di quel processo», prosegue il regista. All’epoca il Partito Comunista Italiano, che nel film è spesso indicato come “il grande partito operaio” sembra fosse una chiesa persino più bigotta di quella cattolica «perché almeno in quest’ultima un omosessuale dopo qualche Ave Maria veniva comunque assolto, mentre se veniva a saperlo qualcuno dei quadri alti del PCI si veniva cacciati perché indegno». Infatti, l’uomo che disse al sedicenne Amelio quelle temende parole sul curarsi o uccidersi pare appartenesse al PCI. Ma oggi come si comporta la politica? «Qualcuno ha detto che abbiamo le unioni civili e dobbiamo accontentarci… io la penso diversamente». Ma nessun partito si salva dalla disillusione: «Tutti colpevoli di poca trasparenza».

Infine qualche parola sulla genesi produttiva, legata al rapporto di Piergiorgio e Marco Bellocchio con il ricordo del caso Braibanti. Mentre il primo aveva ospitato gli scritti di Aldo in qualità di direttore dei Quaderni Piacentini ma poi non se l’era sentita di partecipare attivamente al processo, a dire di Amelio il secondo avrebbe vissuto per molti anni come una sorta di peccato di omissione il non aver fatto un film sul tema. «Quando mi ha chiamato per chiedermi se mi andava di fare un documentario gli risposi no, che ne esisteva già uno, e poi che avevo già realizzato Felice chi è diverso senza riuscire a introdurre il discorso perché Braibanti morì una settimana prima che finissi di girarlo». Da qui l’idea di fare un film di finzione, però prendendosi le licenze del caso, nella speranza di dare finalmente forma a quell’ennesimo spettro che aleggiava sulla coscienza del Paese.

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