Falling – Storia di un padre, di Viggo Mortensen
Sorta di kammerspiel col vantaggio del flashback, costruito sull’accumulo di aspettativa emotiva, e ogni cosa che semina alla fine la raccoglie con spigliatezza. Esordio dell’attore dietro la mdp
Padri e figli hanno attraversato la storia del cinema in ogni sua forma e provenienza per un intero secolo. Che sia il rovesciamento dei ruoli in Ladri di biciclette (1948), lo scontro diretto ne L’impero colpisce ancora (1980) o la rivalità più infantile di Indiana Jones e l’ultima crociata (1989), è indubbio come nella rappresentazione del confronto generazionale vi sia sempre stata una dose di conflitto particolarmente spiccato. Non fa eccezione Falling, esordio alla regia del sessantaduenne Viggo Mortensen. L’attore statunitense, che è anche alla sua prima sceneggiatura, ha infatti rovesciato nel film un complesso di rielaborazioni forse non del tutto esorcizzabili con la sola recitazione. Opere prime di altri interpreti, da Sean Penn a Robert De Niro, confermano questa tendenza. Ad accomunare tali tentativi autoriali è l’esigenza di esprimersi pienamente. L’idea sembra sia nata dopo il funerale della madre di Mortensen, che cominciò ad appuntarsi pensieri e ricordi e si ritrovò a farsi domande sul padre. Eppure va evidenziato che non si tratta di un film autobiografico.
Willis è un uomo d’altri tempi, conservatore e violento, che sta inesorabilmente perdendo il contatto con la realtà. Suo figlio John capisce presto di doverlo spostare dalla fattoria in cui è cresciuto alla casa in California dove ora vive col marito Eric e la figlia Monica. Ma si sa che tornare a convivere con un genitore, soprattutto se non ha mai accettato la tua omosessualità e abita lontano da tempo, può risultare una vera sfida. Willis è interpretato dal grande Lance Henriksen e John dallo stesso Mortensen. Un film d’attori, quindi, che però cerca anche di lavorare sulla messa in scena, intrecciando passato e presente come accade nella mente del vecchio. La malattia non oggettivizza la percezione come in The Father di Florian Zeller, ma piuttosto attiva una serie di immagini utili al disvelamento delle dinamiche relazionali. Da questo punto di vista, l’operazione non apporta nulla di nuovo. Tuttavia funziona: aggancia lo spettatore e lo accompagna attraverso una serie di scene dialogate in cui ciascuno dei due cerca di capire quanto l’altro lo voglia ancora nella sua vita.
Altrove convincono Sverrir Gudnason nei panni del giovane Willis e Laura Linney nella parte della sorella di John. La donna è forse il personaggio chiave della vicenda, seppur piccolo e poco approfondito, perché presenta quelle idiosincrasie necessarie a capire come si possa amare qualcuno che ti ha cresciuto con la sofferenza. Nei pochi minuti in cui Sarah è in scena, l’attrice le disegna sul volto tutta la tragedia. Mortensen, da par sua, sempre accorgersene e le dedica dei bellissimi primi piani d’ascolto che sembrano scatti rubati. Rapidi sguardi, risate nervose, battute quasi sibilate. Un’interpretazione da non protagonista davvero straordinaria. Falling è una sorta di kammerspiel col vantaggio del flashback, costruito sull’accumulo di aspettativa emotiva, e ogni cosa che semina alla fine la raccoglie con spigliatezza. Ben vengano gli attori alla regia quando sanno quello che fanno, e Viggo Mortensen il suo esordio sembra averlo meditato parecchio.
Titolo originale: Falling
Regia: Viggo Mortensen
Interpreti: Viggo Mortensen, Lance Henriksen, Terry Chen, Sverrir Gudnason, Hannah Gross, Laura Linney, David Cronenberg
Distribuzione: BIM
Durata: 112′
Origine: UK, Canada, USA 2020
La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
Il voto al film è a cura di Simone Emiliani