FAME, di Giacomo Abbruzzese e Angelo Milano

Il percorso del festival di graffiti e arte pubblica che ebbe luogo tra il 2008 e il 2012 a Grottaglie, e la sua tempestiva fine nel momento di massimo successo. Visto al Corto Dorico di Ancona

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Prendendo pezzi e immagini di un’epopea già finita, il documentario FAME del regista Giacomo Abbruzzese (Stella Maris) e dell’artista grottagliese Angelo Milano – presentato al 14 Corto Dorico Film Festival ad Ancona – segue il percorso del FAME, festival di graffiti e arte pubblica creato da Angelo Milano che ebbe luogo tra il 2008 e il 2012 a Grottaglie, piccolo paese della Puglia. Spinto da una volontà instancabile, e dalla necessità di sconvolgere il quotidiano e i muri del suo paese – definito da se stesso come “un deserto, il posto migliore per fare quello che ti pare” Milano richiama una serie di artisti della street art offrendo cibo e ospitalità a Grottaglie, in cambio di un’opera sui muri della città.

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Senza avviso né permessi, la visione di Angelo cresce e si trasforma in un evento cult, sempre illegale ma ogni volta più legittimo e vitale, dove poi arriveranno artisti di tutto il mondo come Blu, JR, Conor Harrington, Os Gemeos, Momo, Swoon e Vhils. Ma il prezzo della FAME – segnato da un destino alla James Dean, Jim Morrison, Janis Japlin o Amy Winehouse – può essere morire troppo giovane. Oppure, giusto in tempo. Così, Angelo Milano decide che FAME ha raggiunto la sua “età maledetta” e interrompe il festival nel momento di massimo successo, dopo solo cinque edizioni. Il suo “deserto culturale”, quindi, si rende una sorta di particolare Graceland, un luogo di pellegrinaggio sospeso nello spazio/tempo dove rimane il vestigio di una storia, il racconto in repeat e fast forward di un’azione rivoluzionaria diventata un quotidiano, la cui traccia si dissolve nei muri colorati che minacciano di sparire dietro l’erba.

Sembra che nell’arte, come nel Cinema, sia più facile morire che scomparire. E il

fame5documentario di Abbruzzese e Milano – sia esso il ritratto della fine di un sogno collettivo, oppure di un solo sognatore – fa sì che questa ipotetica “morte” diventi un nuovo corpo liquido, la comparsa di un’altra dimensione che si svela in ogni inquadratura, sempre dentro una cornice – dove finisce il muro e incomincia l’aria – ma espandendosi oltre i suoi confini. Alla fine, si tratta di tagliare e ricomporre – come un montaggio – versare il bianco, cancellare e poi dipingere sopra, processo che lascia sempre una traccia, a volte evidente ed altre impercettibile, sotto la nuova immagine che emerge.

Provare a raggiungere FAME nella sua totalità, definirlo o almeno capire qual è la volontà dietro il racconto di se stesso, magari è questa la vera chimera. Forse tutto è, nelle parole di Angelo Milano, nella reazione alla noia, “quel bene prezioso e sottovalutato che sempre mi ha offerto questo posto” e che nella sua genesi rappresenta la speranza di un colpo che possa stravolgere tutto; forse ha a che fare con la paura della legalità, come principio opposto alla libertà. Oppure, nasce dal paradosso dove FAME trova la sua mobilità: non c’è caos senza inerzia, né rumore senza silenzio. Né colore senza bianco.

fame31Ma questo approccio potrebbe avvicinarsi troppo a un consenso, a rischiare “il finale felice” che Angelo Milano voleva tanto evitare. E appunto, confrontarsi con il cinema non vuol dire cercare di capire e trovare un lieto fine, ma lasciarsi trascinare e sorprendere, come un grottagliese che dopo essersi chiesto perché il muro accanto al “bar Italia” è dipinto di nero, come mai è comparso un gallo gigante accanto alla sua finestra, o perché all’improvviso scorre acqua dal tetto, si mette l’ombrello, passa sotto la cascata e continua a camminare. La bellezza della perplessità che poi diventa quotidianità. La capacità – nelle parole di Giacomo Abbruzzese – di “sviluppare uno sguardo straniero dei posti che amiamo, per poterli raccontare”.

Così come un paese, FAME meraviglia perché si svolge con un ritmo tutto suo, rallentando la vita e accelerando l’immagine, per poi fermarla e renderla infinita. La sua luce nasce da un anima collettiva, l’anima organica di Grottaglie, e dalla sua capacità di reinventarsi, adattarsi e trovare nuove forme nei cambiamenti, senza perdere mai i suoi veri colori.

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