Familiar Touch, di Sarah Friedman
Un film sulla demenza senile intenso ma mai ricattatorio, capace di trasformare il punto di vista della protagonista in una lezione di regia. VENEZIA81. Orizzonti
Una donna anziana sembra prepararsi meticolosamente per un incontro galante. Si veste, si trucca, prepara la tavola per un pranzo. L’uomo che sta aspettando e con cui inizia a mangiare è di mezza età, più giovane di lei. Leggermente imbarazzato, rispetto ai modi di fare gentili e ammiccanti della donna, che si chiama Ruth. “Andiamo a fare un giro” dice lui, portando con sé un trolley. Ruth è emozionata dall’idea di fare un viaggio con quel partner più giovane di lei. Entrano in macchina. Si fermano davanti a un istituto che capiamo essere una casa di cura, ma Ruth è confusa. Quando l’uomo la chiama “mamma” e le ricorda che è stata lei a scegliere quel posto dove andare a vivere, la donna rimane incredula. Familiar Touch è un film sull’Alzheimer che segue il punto di vista della protagonista ottantenne, interpretata dalla bravissima attrice di teatro Kathleen Chalfant. E i suoi primi, straordinari minuti racchiudono tutta la malinconia e la magia poetica di questo notevole esordio di Sarah Friedland.
Girato in una reale struttura californiana di assistenza permanente ad anziani, che ha contribuito non solo come location ma anche nella fase realizzativa delle riprese, il film ha il merito di sovvertire i canoni ricattatori del “genere” per cercare di usare la demenza senile come “possibilità” di immaginazione stilistica, narrativa ed emotiva. Il fatto che per Ruth ogni interazione con i personaggi e con i luoghi che attraversa diventi una sorta di “prima volta”, fa in modo che Familiar Touch si trasformi in un racconto di formazione “al contrario”, capace di modificarsi gradualmente e in modo quasi impercettibile nei toni e nello stile. La regia di Friedland, mettendosi quasi al servizio della protagonista, instaura un dialogo percettivo ed emotivo con lo spettatore che entra nel mondo di Ruth. Friedland inoltre alterna l’impostazione iniziale di cinema naturalista, con improvvise accensioni iperrealiste. La vita della protagonista, destinata a vivere in clinica, più che una condanna, diventa così luogo di incontri, amicizie intense (il legame con l’infermiera Vanessa), innamoramenti, strazianti ricongiunzioni (la scena di ballo con il figlio sulle note di Don’t Make Me Over di Dionne Warwick nel pre-finale). E così il film assume i contorni, quelli sì commoventi ma pieni di vita, del work in progress creativo come amorevole esorcismo nei confronti della vecchiaia e della perdita di memoria.