Fanny e Alexander, di Ingmar Bergman
L’opera-testamento in cui Ingmar Bergman trasfigura la propria autobiografia facendo confluire gli interrogativi di tutto il suo cinema. Vincitore di 4 Oscar. Stanotte, ore 2.30, Rai 3
“Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su una base insignificante di realtà l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni». Il Sogno di August Strindberg
Un film sulla famiglia da parte di chi non ne ha mai avuta veramente una. Un film che riassume il tempo e lo spazio di una vita ma che si svolge paradossalmente nell’arco di soli due anni dal Natale del 1907 al 1909. Un film sulle figure paterne, quella sognata e quella reale, qui intelligentemente invertite. Sulla forza magica del “femminino” che fa rinascere vita da un mondo in decomposizione, dominato dalla morte. Sul potere dell’immaginazione che attraverso l’arte crea un piccolo rifugio in cui anestetizzare le sofferenze dell’esistenza.
Fanny e Alexander è l’opera in cui Ingmar Bergman trasfigura la propria autobiografia facendo confluire gli interrogativi di tutto il suo cinema. Se è vero che il personaggio di Alexander (Bertil Guve) rappresenta l’alter ego bergmaniano è anche vero che Fanny (Pernilla Allwin), apparentemente defilata e non così presente nello sviluppo narrativo, è la parte più silenziosa, l’occhio di una spettatrice che registra gli avvenimenti da un diverso punto di osservazione. Ad Uppsala la grande famiglia Ekdahl è composta dalla nonna Helena (Gun Wallgren) e dai suoi tre figli Gustav Adolf (Jarl Kulle), Carl (Borje Ahlstedt) ed Oscar (Allan Edwall) con le rispettive consorti. Gustav è un impenitente donnaiolo che si invaghisce di una servetta sotto l’occhio benevolo della moglie, Carl è un alcolista pieno di debiti infelicemente sposato a una tedesca e Oscar è l’anima sensibile che vive letteralmente per l’arte ed è convinto che il piccolo mondo teatrale abbia il potere di rispecchiare il “mondo grande”.
Ed è la morte di Oscar (che inizia a stare male durante la rappresentazione dell’Amleto) e la decisione della vedova Emilie (Ewa Froling) di risposarsi, a stravolgere l’infanzia di Fanny e Alexander catapultandoli nell’universo anaffettivo del perfido vescovo protestante Edvard Vergerus (Jan Malmsjo) dietro cui si cela la figura del vero padre di Bergman. La sensibilità di Alexander, la sua capacità di reinventare la realtà con le bugie, il suo talento nel ricreare un piccolo universo nel suo mondo di marionette è posta in contrasto con il furore religioso e la sadica applicazione del potere del patrigno. Alexander l’eretico che bestemmia e si abbandona al turpiloquio durante il funerale del padre è un pericolo per una Chiesa Vetero-Testamentaria in cui la punizione è momento di catarsi. Alexander accetta il mistero di una sessualità composita penetrando nella stanza proibita dell’efebico Ismael interpretato dall’attrice Stina Ekblad; Vergerus si aggrappa disperatamente al visibile, ma la sua repressione sessuale e la sua mancanza d’amore sono destinate ad un falò in cui prevale l’orrore. Sognare la morte del padre-patrigno è il primo passo per ritornare alla vita di un tempo, tra i pupazzi di cartapesta del teatro e i fantasmi della propria vita interiore.
Bergman mescola il pessimismo di Kierkegaard, il teatro di Strindberg e Ibsen con il racconto natalizio di Charles Dickens e le saghe familiari dei Buddenbrock di Mann. Il risultato è un film di sussurri (quelli di Fanny e Alexander che scorrono le immagini della Lanterna Magica) e di grida (l’urlo lacerante fuori campo della moglie di Oscar alla veglia funebre), di sessualità gioiosa (i rapporti tra Gustav e la serva) e di infantile tenerezza (la lotta con i cuscini che richiama quella di Vigo in Zero in condotta), di crudeltà psicologica (tutto il duello tra Alexander e Vergerus) e di improvvise illuminazioni salvifiche (il discorso da Il sogno di Strindberg che apre e chiude il film). Intanto vivi e morti abitano geometricamente la stessa scena tra statue che si animano e orologi che segnano il tempo. Ad esaltare questo affresco novecentesco la fotografia di Sven Nykvist che alterna il rosso degli interni caldi della casa placenta degli Ekdahl con il grigio funebre del mondo cadaverico della casa-chiesa dei Vergerus. Le musiche seguono l’andamento degli avvenimenti: nella grande festa natalizia ascoltiamo le note gioiose di Robert Schumann per poi passare alla marcia funebre di Beethoven, al notturno di Chopin e alle sinfonie tese di Benjamin Britten. La cura della scenografia e la ricostruzione degli ambienti di inizio Novecento ricorda l’analogo lavoro filologico fatto da Kubrick per il Settecento di Barry Lyndon.
Premiato con quattro Oscar (miglior film straniero, migliore scenografia, migliore fotografia e migliori costumi), presentato in due versioni, una televisiva di oltre 5 ore e una per la sala cinematografica di circa 3 ore, Fanny e Alexander è l’opera testamento di Bergman che ribadisce il primato dell’arte nel trasfigurare gli eventi quotidiani: la rappresentazione teatrale all’interno di quella cinematografica è poesia all’interno di un’altra intuizione poetica atta a svelare il mistero del reale. Il Cinema e il Teatro diventano così il vero posto delle fragole.
Titolo originale: Fanny och Alexander
Regia: Ingmar Bergman
Interpreti: Pernilla Allwin, Bertil Guve, Ewa Fröling, Gun Wallgren, Jarl Kulle, Pernilla August, Jan Malmsjo, Erland Josephson, Gunnar Björnstrand
Durata: 312′ (versione televisiva); 188′ (versione cinematografica)
Origine: Svezia/Francia/Germania Ovest, 1982
Genere: drammatico
La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
Il voto al film è a cura di Simone Emiliani