FAR EAST 14 – "One mile above", di Du Jiayi


Larghi prestiti stilistici hanno l'unico risultato di regalare alla pellicola un sapore di già visto e pretestuoso che mal si digerisce. E' pur vero che ormai  è difficile girare un road movie in modo originale, ma arrendersi totalmente senza cercare mai di mettere in scena una propria idea è una decisione che non si può  certo perdonare. Il Tibet, la bellezza estrema di questa terra disgraziata, è però talmente forte da tracimare anche da una pellicola furba come questa

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one mile aboveEra il 2007 quando Sean Penn decise di tornare dietro la macchina da presa e di portare sul grande schermo la vita sfortunata e la morte del giovane Christopher McCandless. Da allora un'intera generazione di ragazzi ha cominciato a sognare ad occhi aperti (forse anche con eccessivo trasporto) l'idea del viaggio nelle terre selvaggie, per lottare cosi contro un materialismo imperante e diventare nuovi eroi romantici. Questo desiderio di viaggiare ha dato vita ad un vero e proprio business di settore, fatto da libri, film e trasmissioni televisive. L'impressione principale che si ha guardando questo One Mile Above del cinese Du Jiay è che i realizzatori, piuttosto che voler semplicemente raccontare  la storia di Shuhao e del suo viaggio in bici in Tibet, abbiano pensato innanzitutto a soddisfare gli appetiti di quel determinato pubblico.

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Le prove che conformerebbero il nostro "teorema accusatorio" sono principalmente tre. La prima è il modo in cui sono raccontati il prologo e l'epilogo di questa vicenda. Se è anche comprensiibile la scelta di non voler soffermarsi troppo sulle vicissitudini precedenti il viaggio (anche se non avrebbe fatto male per la storia vedere approfonditi i personaggi dei genitori e della ragazza) è incomprensibile il motivo per cui la città di Lhasa, la meta tanto agognata di questo viaggio impossibile sia rappresentata in modo tanto sciatto e approssimativo. Cosi facendo non solo si fa un errore narrativo alquanto grossolano ma si svilisce tutto il peso dato al viaggio e ai sacrifici fatti per farlo.

La seconda prova è la rappresentazione dei personaggi secondari. L'idea che si aveva in mente è abbastanza chiara: mostrare come gli incontri fatti durante un'avventura possano cambiare la vita di un giovane. Questo obiettivo è senza dubbio raggiunto sia nel già citato Into the wild di Penn che ne I diari della motocicletta di Walter Salles (altro palese punto di riferimento del film), dove i tanti personaggi incontrati ben si inserivano nel contesto e davano anche un senso alla storia. Qui invece questi "incroci" sono messi in successione come tante figurine e nella loro monodimensionalità non aggiungono nulla nè al racconto, nè alla crescita del protagonista. Addirittura il personaggio del suo amico ciclista, uno dei più importanti nel film, pur essendo rappresentato con più attenzione degli altri viene letteralmente gettato fuori dalla pellicola in una svolta narrativa assurda.

L'ultima prova infine è individuabile nella regia di Du Jiay. Il cineasta cinese punta ad una bellissima e scontata fotografia naturalistica e ad una serie di riprese eccitate e pirotecniche (che tanto devono al Danny Boyle di 127 ore) e non mette quasi nulla di proprio (eccetto forse una scena visivionaria di sogno sulla quale sarebbe meglio sorvolare). Questi larghi prestiti hanno l'unico risultato di regalare alla pellicola un sapore di già visto e pretestuoso che mal si digerisce. E' pur vero che ormai  è difficile girare un road movie in modo originale, ma arrendersi totalmente senza cercare mai di mettere in scena una propria idea è una decisione che non si può  certo perdonare.
Il Tibet, la bellezza estrema di questa terra disgraziata, è talmente forte da tracimare anche da una pellicola furba come questa.

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    Un commento

    • Un viaggio non è mai la sua meta.

      E tutto il film è una sottile metafora – ricordiamoci che in cina la censura è ancora tanto potente – su come solo le nuove generazioni cinesi e tibetane potranno trovare un modo di andare d'accordo.

      Emblematica in tal senso è la frase del bimbo tibetano a Zhang quanto quest'ultimo continua il viaggio: «fratello, quand'è che ci incontreremo di nuovo?».

      ("Kora", tra l'altro, oltre ad essere il titolo del film significa anche "pellegrinaggio" e "meditazione". Negli intenti del regista, quindi, il viaggio vorrebbe essere più interiore che altro).