FAR EAST FILM 8 – Mi torna in mente come un ritornello… "Linda Linda Linda", di Yamashita Nobuhiro

Di questo giovanissimo regista giapponese sentiremo sicuramente ancora parlare. Già conosciuto e acclamato a Rotterdam, il suo cinema è come un "refrain" che perversa nella testa: minimalista che si spinge ai margini del tempo e dello spazio, impressionando scarti e "cul de sac" dello sguardo.

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"Linda Linda Linda", è il ritornello (ed è anche il titolo di un pezzo del gruppo anni ottanta, The Blue Hearts) che si sente sollevare, stretto tra i denti, penetrante e travolgente, all'uscita del cinema. Il trentenne regista nipponico, da sempre interessato, anche nei tre lunghi precedenti (Hazy Life, No One's Ark, Ramblers), dai perdenti ai margini della società girati nello spirito minimalista di Aki Kaurismaki e Jim Jarmusch, segue il "refrain" fuori/dentro, il cut che arriva a malincuore, quasi come non ci si volesse staccare dal girato e dalla vita più che mai intrisa di punti morti, cadute di ritmo, introspezione che rigira ancora nel vuoto. Ma a differenza degli autori citati e rievocati, non c'è mai la sensazione che il cinema di Nobuhiro ecceda nel manierato: il suo cinema respira di "realismo documentaristico" senza enfatizzare l'effetto, ha però anche il coraggio di lasciare in apnea lo spazio e lo scorrere del tempo. Ambientato in un liceo di provincia, è la storia di una band femminile e del loro sogno di gloria in un festival scolastico. Si smantella la maggior parte dei luoghi comuni tradizionali sulla competizione, le umiliazioni, le sconfitte giovanili e le solite incomprensioni tra insegnanti e allievi. Filmare lo straordinario nell'ordinario vuol dire impressionare gli scarti e apparenti "cul de sac" dello sguardo, esaltandosi con la noia delle prove del gruppo e quella turbolenta penombra emotiva adolescenziale. È già un cult qui tra il giovane pubblico di Udine, desideroso di scoprire nuovi talenti capaci di spingersi anche controcorrente nel marasma del cinema iperattivo ed estremo. In un certo senso però Nobuhiro è il più estremo degli autori visti in questa edizione, perché lascia che i suoi corpi si muovano liberi dal "cut", quasi senza sceneggiatura, magicamente unici e "fuori" dal set. Alla prima sequenza una ragazzina del liceo presenta l'evento dell'anno che animerà la scuola, sembra che si rivolga direttamente al regista, ma la sua camera in realtà è da un lato: chi gira in quel momento è un giovane compagno dell'annunciatrice, armato della sua videocamera. Il cut è chiamato da quest'ultimo, per interrompere il flusso della prima visione e dare spazio alla seconda come un ritornello senza tregua. Poco più in la un carrello segue una delle protagoniste attraversare il corridoio della scuola e fermarsi ad ogni porta aperta delle aule per ritrovare i raccordi del quotidiano, materiale inestimabile e poeticamente mai inoffensivo. Come Kitano, che colpisce con una carezza o con l'incontrollata velocità percettiva e non del battere delle palpebre. Poi, quando tutto è finito, la pioggia cade su quei luoghi troppo poco cinematografici, ancor meno estetizzanti, ma ormai assorbiti da "Linda Linda Linda…".           

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