FAR EAST FILM FESTIVAL 2004 – Scuola e violenza: c'era una volta in Corea

Terza giornata divisa tra commedia e sangue: da un lato lo sguardo sulla gioventù hongkonghese ("Truth or Dare") e coreana ("Singles"), dall'altro gli scontri adolescenziali di "Once Upon a Time in Highschool" e il delirio grottesco di "Showa Kayo Daizenshu".

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Mentre per le strade del centro sfilano i colori dei festeggiamenti per il 25 aprile, al teatro Giovanni da Udine la mattinata si apre con la retrospettiva su Chor Yuen: The Black Rose, ispirato a una leggenda locale, sorta di Robin Hood al femminile, è un compatto prodotto da intrattenimento che fa sentire tutti i suoi anni (è del 1965),  con una struttura ingenua e qualche ridondanza nei dialoghi, ma che tutto sommato conferma la capacità del regista nel confrontarsi con il cinema popolare. Le due paladine della giustizia che di nero vestite rubano ai ricchi corrotti per donarlo ai poveri, si muovono per lo schermo con snodabile abilità, saltando e roteando di fronte agli allibiti personaggi maschili – si tratti di poliziotti, cattivi o dell'eroe della vicenda, un investigatore assicurativo che ha il compito di indagare sul furto di un gioiello. Qualche scena ben congegnata (il confronto tra l'investigatore e una delle ladre in un casolare abbandonato) e il ritmo serrato garantiscono il divertimento. Più impegnativo Infernal Affairs III, atteso seguito che ripropone il cast del capostipite e conclude (per il momento?) la fortunata saga poliziesca messa in scena da Andrew Lau e Alan Mak. Gli intrecci tra giustizia, triadi, moralità e dovere si approfondiscono, svelando nuove motivazione e introducendo altri personaggi (l'ambiguo poliziotto interpretato da Leon Lai). Più sfilacciato del primo e meno innovativo del secondo, la trilogia si conclude comunque con onore, consegnando una rilettura consapevole e ispirata della tradizione noir hongkonghese. Con la tradizione si confronta anche Zhang Yuan: molto atteso dagli appassionati dopo le raffinatezze di Green Tea, Jiang Jie (dal nome della protagonista) è la riproposizione di un'opera rivoluzionaria degli anni settanta. Messa in scena, musiche ed espressività riportano ai grandi classici dell'opera cinese, con l'aggiunta di una limpida consapevolezza moderna e di un brillante retrogusto pop. L'omaggio appare però fuori fuoco, troppo edonista stilisticamente, finendo per svuotarsi di significato in una rincorsa a istoriature già viste. Il pomeriggio prosegue con la commedia giovanilistica  Singles, di Kwon Chil-in: sembra una versione frizzante e disinibita di un episodio del televisivo Friends, con  giovani carini e imbranati alle prese con precipitazioni amorose che si trasformano in malrovesci esistenziali. Il pubblico in sala ne apprezza l'esuberanza e la scorrevolezza, ridendo di gusto (dimostrando che i rutti a scena aperta continuano a pagare), ma lo sguardo della regista si ferma in superficie, offrendo una prospettiva autocompiaciuta, dai risvolti sognanti. Con un tocco leggero, ma con ben altro mordente si presenta Truth or Dare: 6th Floor Rear Flat: nuovamente un ambiente giovanile (gli scombinanti postadolescenti che coabitano in un appartamento), nuovamente una regista – Barbara Wong, al suo esordio nel cinema mainstream dopo Women's Private Parts – per una storia ridanciana e scatologica tra sfide e crescita. Non ci si discosta dai modelli di commedia riproposti in questi anni di crisi dal cinema hongkonghese – attori appena svezzati provenienti dalla scena musicale, non troppo coraggio nelle ramificazioni della storia, mood aderente al mondo che si va a raccontare (non c'è spazio per punti di vista esterni) – ma senza dubbio solare e promettente nell'alchimia che traspare. La vera sorpresa arriva però con Once Upon a Time in Highschool: Spirit of Jeet Kune Do. Storia di crescita tra scuola, amori e pestaggi come già ci ha abituato il cinema coreano recente (dall'imprescindibile Friend ai più compassati Volcano High e Conduct Zero), pare strano vederla realizzata dal poeta scopertosi regista Yoo Ha, autore del diversissimo Crazy Marriage (storia intimista di un amore tormentato). Non si tratta di un capolavoro, ma di una variazione originale e sentita sul tema del ricordo e della perdita dell'innocenza, con due amici attratti dalla stessa ragazza che si barcamenano tra professori violenti (ritratto veritiero della scuola coreana del passato) e compagni teppisti. Il contraltare al realismo venato di struggimento di Yoo è la brusca ironia nera del giapponese Shinohara Tetsuo: Showa Kayo Daizenshu appare un violento monologo pulp in cui due gruppi eterogenei (da un lato un branco di adolescenti annoiati, dall'altro… casalinghe!) si scontrano a suon di assassinii largamente improbabili. Il risultato è meno feroce di quanto si potrebbe pensare, purtroppo, visto che la carica di critica sociale implicita nell'assunto è stemperata nella noia di una regia blanda, che non riesce a gestire i tempi drammatici.

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