Fare documentario è come fare free jazz. Sentieri Selvaggi intervista Leonardo Di Costanzo

Poco prima dell’incontro alla Casa del Cinema organizzato a febbraio dal SNCCI Gruppo Regione Lazio, abbiamo fatto una chiacchierata con Di Costanzo. Da Ariaferma fino agli esordi nel documentario

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Il 23 febbraio abbiamo avuto l’opportunità, grazie all’evento organizzato dal SNCCI – Gruppo Regione Lazio alla Casa del Cinema di Roma, di incontrare uno dei cineasti italiani più interessanti degli ultimi anni. Continuatore di un certo tipo di realismo pasoliniano perso negli ultimi anni a favore di un cinema che preferisce lavorare sul fantastico e il genere. Di Costanzo invece riparte dal basso. È un cacciatore con il mirino puntato su una foresta abitata da Fiere dantesche. Perché in maniera del tutto simile a quelle entità racchiuse dentro i corpi di bestie selvagge che minacciano Dante durante il suo cammino, i suoi personaggi fanno da ponte verso un mondo che si apre al di là del fotogramma diventando specchio di tutti quei meccanismi primordiali che regolano la nostra società. Il carcere, la periferia, il secondino e il carcerato di Ariaferma non si presentano solo secondo queste forme. Rappresentano il bene, il male, l’amore, l’odio e tutti quei titani costretti in uno spazio sempre respingente e soffocante dove si deve cercare una mediazione per il quieto vivere. Un approccio tipicamente da documentarista che Di Costanzo si porta dietro fin dagli albori della sua carriera artistica, partita proprio dai documentari in Francia e dalla scuola per documentaristi fondata in Cambogia insieme a Rithy Panh. Un linguaggio libero, povero e attaccato alla realtà tangibile che ricerca nei piccoli momenti di vita quotidiana quella realtà estatica che va oltre l’immagine facendosi drammaturgia.

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In Into the Abyss c’è uno scambio iniziale dove Herzog confida al condannato che lui non gli piacerà mai, che è lì solo per comprendere il perché dei suoi omicidi e il perché lo Stato stia per ripagarlo con la stessa moneta. In questo scambio ci vedo parecchio del tuo cinema che mette sempre a confronto Bene e Male, costretti poi dall’ambiente circostante a trovare una mediazione. Non è mai un cinema che giudica. Lascia parlare gli spazi e l’azione. Pertanto ti chiedo cos’è che ti interessa raccontare?

Io mi sono sempre interessato quando facevo documentario a quelle figure che stanno tra il dentro e il fuori dalla società. Dentro e fuori vuol dire spesso che c’è gente complicata che attraversa il Male, che ne è anche costretta. Mi sono interessato sempre a queste figure che sono un ottimo punto di osservazione. In questi luoghi, dalla volontaria in zone difficili al sindaco di una città afflitta dalla camorra, ci sono tutte figure che devono interagire con il luogo e che sono costrette a trovare una via per modulare tra Bene e Male. Da un punto di vista sociologico sono un buon punto d’osservazione su come sta la società e sono dei personaggi interessanti anche dal punto di vista drammaturgico. Perché non sono immobili, sono personaggi costretti a interagire con una realtà che li obbliga a cambiare. Ad un certo punto ho sentito il bisogno di cercare di entrare più dentro i personaggi e passare dalla realtà a qualcosa di più scritto per ottenere ciò.

Come avviene la scrittura di personaggi come quelli di Servillo e Orlando che sembrano anche dimenticare il loro ruolo? Alla fine sono entrambi dei carcerati.

Questa è una cosa che ho imparato col tempo. Certe volte è bene togliere i personaggi dalla loro quotidianità. Escono dal loro ruolo perché vivono la situazione e stanno in una situazione di pericolo, lì sono costretti a cambiare e ad abituarsi, rivelandosi ancor di più. Questa è stata l’idea di scrittura dietro ad Ariaferma, dove io non passo dalle varie tappe cioè soggetto, trattamento, sceneggiatura. Per me è importantissimo l’ambiente e i personaggi, creare una situazione e vedere come tutti reagiscono.

Alla conferenza a Venezia Orlando disse che non si aspettava di fare il camorrista visto il suo passato in ruoli ben lontani dal cattivo, come mai questa scelta e come mai il passaggio ad attori del genere dopo anni di lavoro con attori non professionisti?

Avevo bisogno di raccontare qualcosa di distaccato dalla realtà e per questo avevo bisogno di una recitazione. Certe volte lavorare con persone che hanno vissuto sulla propria pelle quelle storie non riesce a ricreare un certo tipo di distanza che io ricercavo. All’inizio avevo pensato di assegnare i ruoli al contrario, forse perché sarebbero stati più congeniali anche alle carriere dei due, ma poi ho pensato che loro sarebbero stati troppo comodi, troppo a proprio agio. Avrebbero potuto cercare facilmente una delle facce che si erano costruiti addosso negli anni.

riprese e montaggio di Giorgia Fiore

Il tuo film viene invaso dal linguaggio del documentario come se fosse una sorta di ibrido, è  questo il linguaggio del futuro?

Non lo so. Certe volte si deve andare verso la realtà, altre volte verso altre cose. Io penso che il cinema di finzione si sia reso conto di non riuscire più a raccontare il mondo, mentre nel documentario c’era una capacità invece di raccontare in maniera molto più libera, filmando in ogni momento e riuscendo pertanto a cogliere la vita con mezzi di produzioni più accessibili. Quindi c’è stata una sorta di rincorsa verso questo tipo di linguaggio. Camera a spalla, assenza di luce, il dogma no?! Stranamente però poi anche il documentario ha iniziato a voler esser più impostato, più finzione. La capacità del documentario però è quella di filmare l’attimo, il caso. Prevedere l’imprevedibile. Ed è questo che forse rende questo linguaggio più forte rispetto alla finzione. Ho però la sensazione che in questo momento il documentario voglia “lisciarsi”. Togliere la naturalezza e questa ricchezza per andare verso immagini sempre più “quadrate” senza poter godere della capacità evocativa di questo linguaggio. Fare documentario vuol dire fare free jazz, non puoi fare free jazz facendo il rondò veneziano.

Che ne pensi dello streaming e dei problemi che stanno avendo le sale italiane?

Io rispetto alle novità ho un atteggiamento sempre positivo. Cerco di capire in che modo può aiutare il cinema. A me piace vedere un film chiuso, insonorizzato. È un rito collettivo. Mi ha meravigliato che il mio film sia uscito dopo pochissimo tempo su piattaforma, però è anche vero che rimanendo in qualche sala anche dopo l’uscita streaming mi è capitato di vedere gente che veniva al cinema nonostante avesse già visto il film a casa. Il grosso problema è che le sale in Italia si devono rinnovare. A me ha stupito questa cosa che le persone siano venute al cinema nonostante avessero già visto il film, forse perché c’ero io. Però sono speranzoso, secondo me non siamo verso la fine, si deve cercare qualcosa di nuovo per attirare il pubblico.

Qual è stato il film che più ha cambiato il tuo percorso artistico?

Credo Cadenza d’inganno. Un film senza trama dove io semplicemente seguivo un ragazzino e cercavo di raccontare la frammentarietà della sua adolescenza difficile. Andava da una parte all’altra. Avrei potuto raccontare la sua aspirazione a diventare un calciatore, ma questa assenza di trama, questa vaghezza con l’assenza di un percorso prestabilito l’ha portato a cedere. Non se la sentiva di mostrare tutte le sue esitazioni, il suo non sapere. Poi mi ha chiamato tempo dopo dicendo che aveva una sequenza per finire il film. Si sposava e voleva che io andassi a filmarlo. Mi disse tu volevi filmare la storia di Antonio e alla fine Antonio si sposa. Da lì mi ha sempre incuriosito questa cosa che il personaggio abbia preso il possesso della storia. Lasciando da parte le esitazioni e tutto. Quindi da quel momento ho capito che per determinati lavori avevo bisogno di interpretazioni, di persone che recitassero. Continuo però ad insegnare documentario perché credo che sia la base del cinema. E alla base del cinema c’è il saper ascoltare, il riconoscere la vita e il cinema nella vita con tutti quei piccoli momenti di drammaturgia che ci circondano.

Quali sono stati i tuoi punti di riferimento?

Jean Rouch. Tutte le riflessioni su come restituire la realtà che lui filmava mi hanno sempre affascinato. Fece ad esempio un film sui Dogon in Niger. Dieci ore in 16 mm che non montò mai per far rimanere il tutto più vicino ai suoi occhi. Tutte le interrogazioni su come filmare, su come restituire quello che lui vedeva per me sono state fondamentali. Perché devi sapere cosa ti circonda, devi comprenderlo, tenere i pori sempre aperti.

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