FCAAAL 26 – Primo giorno all’insegna di Kim Ki-duk

Con Stop Kim Ki Duk spiazza i suoi spettatori, didascalico, ma non semplicistico riflette sui destini dell’umanità. Due giovani registi italiani guardano alla marginalità che occupa il nostro quotidiano.

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Dopo la serata inaugurale con il film di Takeshi Kitano, di cui si avrà modo di parlare, il Festival ha offerto l’anteprima del nuovo film del sempre sorprendente Kim Ki-duk. Il suo cinema, qualunque sia il giudizio che si voglia dare sui suoi film, è sempre sorprendente, inatteso e anche ove parzialmente irrisolto, sempre stimolante per la sapienza teorica che sembra accompagnarlo. La geometria narrativa ed espositiva delle sue prime prove, che si trasformava in tensione verso una possibile perfezione formale, oggi è divenuta matematica concettuale nel teorema che di volta in volta l’autore si propone di dimostrare.
Stop, il film che il Festival di Milano presenta in anteprima nazionale nella sezione Flash, costituisce una ulteriore inattesa anomalia nella evoluzione del regista coreano. Il suo cinema, così razionale qui sembra volere disperdere ogni possibile logica e in una ossessività perfino claustrofobica Kim Ki-duk obbliga i suoi personaggi ad un tour de force psicologico per nulla semplice e per nulla salvifico.
Una coppia è costretta ad evacuare dopo l’incidente di Fukushima. Il vero problema che la donna è incinta e un emissario del governo la invita ad abortire per i rischi delle radiazioni sul feto. Sulle prime il marito si oppone, ma dopo un ennesimo ritorno a Fukushima e avere assistito al parto di un bimbo deforme di una donna che non aveva lasciato l’area contaminata, cambia opinione. Ma ora è la donna ad opporsi. Il bambino nascerà e in qualche modo su di lui peserà la scelta dei suoi genitori.
Film a basso budget, autarchico, tanto da essere stato girato dallo stesso regista senza l’ausilio di di una vera e propria troupe, egli stesso ha escogitato un sistema per catturare il suono direttamente durante le riprese senza un tecnico che ne modulasse i livelli.
Se c’è una immediata evidenza in questa nuova piega del cinema del regista coreano è sicuramente quella di un apparente ritorno ad un’opera pienamente narrativa che sembra distaccarsi da quella rarefazione del racconto a favore di una esplicazione teorica che aveva caratterizzato le ultime sue prove. Stop è un film estremamente didascalico, semplice, immediato senza fronzoli e Kim Ki Duk sembra volere puntare dritto all’obiettivo. Ha bisogno assoluto di dire la sua, di mettere in scena, con estrema chiarezza il suo pensiero e o fa senza riflessioni filosofiche, senza troppi giri di parole (o di immagini), ma immediatamente con una coppia e i loro dubbi che si trasformano subito, nella metabolizzazione dello spettatore, in perplessità esistenziali ed è qui che si ha piena contezza delle questioni. In questo didascalismo che sembra ripetere e riportare alla complessità che il tema merita, il film getta le fondamenta per una riflessione più ampia sui destini di un’umanità che sembra avere smarrito ogni razionalità, ogni capacità di riflessione che guardi al futuro sugli errori del passato. Non esenti da questa diffusa irragionevolezze i due protagonisti che scelgono istintivamente piuttosto che sulla scorta di un ragionamento, così come del tutto irrazionale appare ogni semplicistica e tardiva riflessione sullo spreco energetico. Kim Ki-duk in questa riduzione al crudo significato e la dove sembra semplificare tocca, invece, nervi scoperti di una diffusa irrazionalità che sembra dominare le scelte che ricadranno sulle future generazioni. È quello che accadrà all’ipersensibile figlio della coppia che sembra assumere su di se il rischio di una mutazione genetica frutto di un contrappasso rispetto alla insensibilità che domina le decisioni dei più potenti. Stop non è un urlo disperato, è piuttosto una amara operazione aritmetica in cui si espongono i risultati di una riflessione, senza le cattive semplificazioni, ma con un film semplice e diretto.
Su campi avversi, Fenoglio e TortoneNella prima giornata, da non sottovalutare il mediometraggio, nella sezione Extr’A, Su campi avversi di Andrea Fenoglio e Matteo Tortone. Due storie si incrociano nella campagna di Saluzzo. Il racconto è quello di due storie che nascondono due di solitudini, quella di un campo di migranti e quella di un contadino ormai fuori dal tempo. Due storie di protagonisti marginali di una scena che non sembra trovare posto, ma che invece si insedia quotidianamente nei nostri scenari. Fenoglio e Tortone non banalizzano mai questa loro intuizione e anzi lavorano su un impianto visivo e formale molto alto, preciso e pieno di contrasti nel semplice cromatismo che utilizzano. Un film che riflette il progetto più complessivo che sta dietro l’operazione. Su campi avversi sembra sciogliere il nodo della contrapposizione che sta nel suo titolo e vuole, invece, provare a ricercare le radici comune di una nuova umanità, magari fondata su una globalizzazione che diventa necessaria e perfino utile.

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