#FCAAAL28 – The seen and unseen, di Kamila Andini

Essenzialmente costruito sulle invisibili strutture dell’immaginario attraverso la duttilità della macchina da presa, vediamo uno scorcio di soprannaturale, una segreta sfera dell’irreale.

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Mettiamo da parte il mondo delle fiabe che popola l’immaginario infantile. Il lavoro della trentenne regista indonesiana Kamila Andini prende altre direzioni con altre intenzioni. The seen and unseen, letteralmente Il visibile e l’invisibile, è al contempo un film che resta fortemente legato alla cultura indonesiana proprio perché ne fa trasparire, con rigore stilistico, la complessità, ma attraverso le vicende raccontate, su una trama semplice, diventa una ulteriore metafora del cinema, pensando a quanto, di questo strumento, resti invisibile, pur se percepibile, determinando per sempre la parte del visibile che conosciamo.
Tantri e Tantra sono sorella e fratello gemelli. Tantra è gravemente ammalato e la piccola Tantri, addolorata dalle condizioni del fratello che sta perdendo progressivamente l’uso dei sensi, si rifugia in un mondo fantastico.
Il rigore stilistico del film sul quale varrà la pena di ritornare, contribuisce alla riuscita dell’operazione e alla bellezza estetica dell’opera compiuta. The seen and the unseen è un film che è essenzialmente costruito sulle invisibili strutture dell’immaginario, Kamila Andini mostra, attraverso invidiabili capacità evocative, utilizzando la duttilità della macchina da presa, quello scorcio di soprannaturale, quella segreta sfera dell’irreale dove i due fratelli gemelli trovano una comunanza che il mondo non riesce a vedere. Proprio questa forza segreta che il film possiede e che contrasta con l’apparente fragilità che sembrerebbe possedere, al contrario determina immagini di grande potenza visiva che sembrano evidenziare quelle strutture così invisibili eppure così potentemente evocative.
Kamila Andini disperde nel suo film i segni di una cultura indonesiana, balinese più in particolare, del tutto estranei, come è naturale, alla cultura occidentale. Un’operazione che l’autrice compie con grande naturalezza, con estrema lucidità narrativa. Alcuni oggetti attraverso questa elaborazione diventano simbolici, l’uovo ad esempio, simbolo di un costante equilibrio tra elementi uguali e diversi, con l’evocazione della doppiezza gemellare. Un lavoro segreto e sotterraneo che non diviene mai giustapposto o posticcio. È proprio su questo misterioso equilibrio simboleggiato dall’uovo che più volte ritorna come elemento di sintesi di un pensiero, che l’occhio di Kamila Andini si ferma a mostrare

l’inquietudine di Tantri preannunciando l’imminente scomparsa del gemello. Lei odia i tuorli e nello sbucciare un uovo sodo non ritrova il tuorlo, un uovo sodo fatto solo di albume solidificato perde quella naturale armonia per diventare una piccola mostruosità inquietante, per presagire una vicina e irrimediabile frattura che colpirà i due fratelli.
Il film, peraltro, si avvale di uno stile che si mantiene uniforme e rafforza la presa soprannaturale. I lunghi piani sequenza che ricordano il cinema, strutturalmente simile, di Apichatpong Weerasethakul, incantano lo spettatore che non percepisce la fissità della macchina da presa, ma piuttosto, il piacere dell’osservazione di un mondo di irresistibile fascino. La macchina da presa, tenuta sempre ad altezza di bambino, restituisce la visione di un mondo differente e come sempre, determina lo sguardo che si vuole fare diventare comune. Un uso esclusivo di luce naturale contribuisce a radicare in questo mondo le vicende del film e a fare diventare ancora più straordinario lo sguardo verso una soprannaturalità incombente, ma a pochi visibile. La complessità articolata di questa messa in scena, che non mostra mai i complicati grovigli che la tengono in piedi, tanto si fa mimetica la capacità artistica dell’autrice, finiscono per restituire un effetto ipnotico allo spettatore. Una complessità che consente di superare ogni linea di demarcazione sia tra il reale e quella irrealtà nella quale Tantri si rifugia, sia nelle distanze, tra la stanza d’ospedale e la casa, ad esempio. È l’uso di una macchina da presa in una specie di continuum a fare si che il cinema annulli gli spazi, determinandoì, anche qui un altro luogo che obbedisca a leggi differenti a suggestioni consolatrici.
Tantri si rifugia in questa sfera dell’irreale per superare questa prova durissima della vita e quello che trova non è, molto banalmente, il mondo dei sogni, quanto, invece, un mondo esclusivo e ricco he condivide con il fratello morente nelle ore notturne. Il corpo, così immobile per Tantra, diventa materia espressiva per Tantri che lo utilizza per le sue movenze danzanti che sembrano fare uscire fuori i sentimenti e anestetizzare il dolore.
La regista mette in scena un mondo, naturalmente, infantile, là dove più forte sembra manifestarsi quella capacità di evocare un soprannaturale che ci circonda. Ma il suo è un cinema ad ampio spettro che continua nella ricerca di una soprannaturalità consolatrice come era già avvenuto nel suo film d’esordio The Mirror Never Lies.
Kamila Andini ha saputo costruire un mondo soprannaturale, ha saputo farlo abitare dai corpi di questi due bambini, ha saputo immaginare un cinema evocativo e suggestivo senza mai cedere alla banalità di una immaginazione che non sia giustificata dal racconto, ci ha ipnotizzati con la sua macchina da presa e con i suoi lungi silenzi notturni, ci ha raccontato un mondo che forse non avremmo mai visto.
Crediamo di non avere molto altro da chiederle.

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