#FCAAAL28 – The wandering soap opera, di Ràul Ruiz

Racconto borgesiano, privo di alcun baricentro narrativo, geniale rompicapo e puzzle che sembra non avere tutti i pezzi in fila. Testamento complesso con la complicità della moglie del regista

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dai dialoghi del film

Film postumo di un autore prolifico la cui opera completa è ancora tutta da scoprire. Cileno di nascita e francese d’adozione, Ràul Ruiz era un regista instancabile e come accennava Giuseppe Gariazzo prima della proiezione del film, ancora molto ci sarà da scoprire dei suoi film lasciati incompiuti o che sono finiti a completarne altri. Come era già successo per il precedente Linhas de Wellington, anche questo The wandering soap opera (La telenovela errante) film i cui materiali sono stati girati dal regista nel 1990, è stato terminato, dopo la morte di Ruiz dalla moglie Victoria Sarmiento.
Una serie di false e improbabili situazioni da telenovela che nella scansione di una

settimana si susseguono sullo schermo, tutte cariche di una comicità surreale e disperata. Ruiz ricrea una inesistente realtà cilena. Tutto avviene solo attraverso le situazioni di queste fiction che si fanno guerra tra di loro, come province di uno stesso Paese. Ruiz si diverte a giocare con il suo giocattolo e moltiplica le visioni televisive, i televisori stessi, costruendo una specie di mondo parallelo e surreale che fa leva su una assai difficilmente controllabile realtà televisiva, surrogato di una condizione umana che l’autore guarda con particolare ironica commiserazione. Il film di Ruiz lavora su un registro tutt’altro che semplice e sembra volere ricacciare i suoi spettatori in un misterioso labirinto. È proprio questa massima forma di artefatta realtà che costituisce la misura di un impianto tutt’altro che banale sul quale il suo film poggia.
The wandering soap opera nel suo andamento frammentato, tipico della narrazione televisiva nella quale è immerso, fa chiaro riferimento alla politica del Cile e la mancata conoscenza di quella situazione, sicuramente complessa, fa sfuggire i riferimenti che Ruiz dissemina nella sua caotica concezione, in quella frammentarietà narrativa di cui si diceva che Ruiz amplifica e utilizza come struttura non solo del racconto, ma come sistema più complesso e, diremmo, (auto)narrante.
Il film si presenta come in una racconto borgesiano, privo di alcun baricentro narrativo, se non quello costituita dall’idea che lo sorregge, ma Ruiz era anche un lettore appassionato di Calderon de la Barca e quindi la struttura essenzialmente notturna del film sembra rimandare ad una ennesima esplicazione del sogno, forma libera di una incosciente interpretazione personale della realtà, che aumenta il grado di interpretazioni possibili e successive. È la forma, intimamente libera da ogni struttura, da ogni canone narrativo a fare diventare The wandering soap opera un film concettualmente complesso, ad autorizzare ogni interpretazione, ogni possibile soluzione. Il film diventa una ampia e circostanziata riflessione politica, ma, al contempo ci attira in quella magmatica realtà che si fa soltanto televisiva verso la quale Ruiz sembra avere un atteggiamento di divertita cattiveria. La televisione, nella sua mostruosa galleria di personaggi, continua a mostrarsi come magnetica e continua a manifestarsi come arena malefica cronenberghiana, massa gelatinosa disponibile ad accogliere le forme del reale, digerendone tutti i contenuti, trasformandosi, a sua volta, in forma mostruosa del reale. Il personaggio femminile che ama gli uomini con i muscoli e il suo amante che tira dalla giacca delle fette di carne, dicendo che lui ha i muscoli, la sequenza di coppie omicide che si uccidono una di seguito all’altra in un infinito e tragico gioco di trappole, diventano sequenze di un reale fatto di assurde forme di comunicazione, ma sicuramente di messa in scena alterate, oniriche, satirizzanti, di un reale che l’occhio televisivo, l’unico ad operare questa trasformazione, trasforma in spettacolo dell’assurdo. Un non racconto che utilizza il grado massimo della metafora, anzi, ne fa una immensa, labirintica e visionaria metafora della quale molto sfugge, non tutto può essere dominato come il parlare di una lingua straniera o di un segreto flusso di coscienza. Non dimentichiamo che i materiali girati da Ruiz risalgono al 1990, anno nel quale si chiude ufficialmente il periodo triste della terribile dittatura di Pinochet. La genialità di Ruiz sta in questa distanza che egli interpone tra la materia e il suo pensiero, tra l’urgenza del dire e il pudore intellettuale del mostrare. Per una operazione del genere Ruiz si serve di ogni mezzo, ammicca alla letteratura, allo spettacolo di puro intrattenimento, azzerando ogni continuità narrativa, sconvolge ogni differenza tra i riferimenti culturali, utilizzando indifferentemente gli uni per esaltare gli altri. The wandering soap opera diventa così un geniale rompicapo, un puzzle che sembra non avere tutti i pezzi in fila. Cinema che racconta l’assurdo, con forme iperboliche e tanto popolari quanto aliene da ogni essenziale forma di bellezza cinematografica. Satira buñueliana, quindi, sornionamente pessimistica sulla disfatta sociale e politica di una intera collettività, una sorta di cinema dell’avvenire che sembra avere le forme e gli echi antichi del passato, elogio consapevole di una bruttezza che si fa necessaria. Ruiz sembra scavalcare anche le coordinate temporali, lasciandoci, con la complicità della moglie, un testamento complesso, tutto da decifrare, dove molto ci dovremo dare da fare per scoprire le segrete volute delle sue intenzioni.

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