#FCE2021 – Incontro con Carlo e Luca Verdone

Vita da Carlo, il restauro di 7 chili in 7 giorni, il futuro delle nuove generazioni e il politically correct che invece minaccia la comicità: Carlo e Luca Verdone ospiti al Festival di Lecce

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Doppio appuntamento al Festival del cinema europeo di Lecce con Carlo e Luca Verdone, per la proiezione dell’ultimo film del primo, Si vive una volta sola e per quella del restauro del classico del 1986 7 chili in 7 giorni diretto dal secondo, disponibile da ieri sulla piattaforma streaming di Infinity+. E proprio il destino della sala e il suo rapporto con le nuove forme di distribuzione online è stato al centro del loro incontro con la stampa, specie nella sua prima parte, dove è intervenuto solamente Carlo, il quale ha anche potuto parlare direttamente della recente esperienza della sua serie per Amazon Prime Video, Vita da Carlo.

La collaborazione con Amazon, d’altronde, nasce già per Si vive una volta sola, arrivato a maggio sulla piattaforma. Gustandosi finalmente una delle poche occasioni in cui è riuscito a veder proiettato il film in una sala e col pubblico, l’attore e regista romano ne ripercorre le difficoltà di distribuzioni, con i continui slittamenti causati dall’epidemia Covid: “abbiamo aspettato mesi con la speranza che i numeri calassero”. La “resa finale”, sua e di De Laurentis, è così arrivata quando ormai non c’era più altra soluzione e “quindi l’abbiamo dato ad Amazon Prime Video”. D’altronde “io con loro stavo già lavorando a una serie televisiva, Vita da Carlo”, così facendo Verdone rivela che la serie, a discapito di quello che in molti abbiano potuto pensare, è stata concepita ben prima dell’epidemia, ossia “durante la scrittura di Benedetta Follia”. Serie che, pur con le sue dovute drammatizzazioni, trova spunti reali anche nelle situazioni più assurde, come quella, accadutagli realmente, del sondaggio da parte di un quotidiano, che lo vedeva all’80 per cento delle preferenze dei lettori in veste del prossimo sindaco di Roma. Ed è lì che quattro politici importanti sono “di cui non faccio i nomisono venuti a casa mia”, proponendogli davvero un’entrata in politica. Discussione spenta sul nascere dal regista, che giudicandoli oggi piuttosto “superficiali”, gli ha risposto di non averne chiaramente le giuste competenze e che sia solo il cinema la sua professione.
Ritornando, quindi, a Vita da Carlo:è stato un lavoro faticosissimo – racconta – e poi siamo usciti, con un successo pazzesco”. Un’opera che parla della “storia di un uomo di successo molto amato dalle persone, ma talmente generoso con tutti che arriva a chiedersi la sera: cosa ho fatto per me?“, in cui ha cercato di “raccontare situazioni che appartengono a tutti“, cercando così di raggiungere “più pubblico possibile“. Anche perché la disponibilità di essere distribuito in tutto il mondo, e non solo nei “soliti paesi” riservatigli dai produttori del passato, appare tutt’ora al regista piuttosto unica: “è un’opportunità enorme di farmi conoscere da un pubblico immenso”, dopotutto “noi abbiamo capito Parasite, no?”. E guardando invece all’America, Verdone ricorda, pur con una certa ironia visti i suoi recenti trascorsi, che l’unico ad aver creduto in lui in passato, portando Sono pazzo di Iris Blond nei cinema di New York e Los Angeles, sia stato il produttore Harvey Weinstein. E a chi gli chiede se c’è la possibilità di vedere una seconda stagione della serie, risponde, pur affermando che al momento non ha ancora scritto nulla, che: “visti i risultati, credo di sì. Ma dipende anche da me”.

Ma la distribuzione in rete può comportare anche risvolti negativi, molto più drammatici, riguardanti per esempio il destino della sala. Sala a cui Verdone è chiaramente affezionato, ed è lì che dice di voler finire la carriera: “la morte totale della sala diventerebbe un grosso colpo anche alla cultura. Significherebbe la morte del cinema d’autore”. L’unica concreta soluzione per Verdone va trovata nel fare prodotti di qualità, nel “rimboccarsi le maniche” e non girare più “i filmetti che facevamo prima”, piuttosto concentrarsi su soggetti e sceneggiature che abbiano una vera importanza, in modo da “portare lo spettatore ad alzarsi dal divano”. In fondo il problema più concreto, dice, sta proprio nel cambiamento di abitudini legati alla fruizione, che non permette anche a quell’auspicato cinema d’autore di un certo livello come Qui rido io di Martone, ossia “un grandissimo film, ma che ha subito il Covid e le assenze nelle sale”, di avere il loro meritato successo al botteghino. Ed il pubblico più difficile da conquistare è quello dei più giovani, i quali con l’evoluzione del digitale e la possibilità di fruire dell’audiovisivo quanto e in che modalità preferiscono sono “ormai abituati ad una narrazione breve e concisa. Questo mi fa preoccupare, per la sopravvivenza della sala”.
Argomento, quello delle nuove generazioni, che a Verdone sembra stare particolarmente a cuore e per cui spende più di una parola, partendo proprio dalla sua esperienza di autore e della sensibilità necessaria nel ritrarli sullo schermo: “ho cercato di rappresentarli, in maniera obiettiva”, ma stando comunque attento per “non apparire come il vecchio che vuole raccontare i giovani”. La sua linea guida è allora quella di “non rincorrere i giovani, sarebbe sbagliato”, piuttosto invece bisogna fare il “tifo” per loro, sperando che siano poi loro stessi a raccontarsi e a “prendere in mano la situazione”. E a tal proposito, il regista fa riferimento sul suo puntare su nuove leve non solo nella scelta del cast, ma anche all’interno della troupe, come Alice Filippi, oggi regista (Sul più bello) e che proprio con lui ha cominciato come assistente volontaria.

Se da una parte, quindi, prevale la speranza verso i più giovani, dall’altra va preso atto comunque del profondo cambiamento della società, che non può che influenzare anche il movimento artistico. È ciò che traspare in occasiona della seconda parte della conferenza, condivisa col fratello Luca, partendo dalla domanda: “ci sarà un erede di Carlo Verdone?”, a cui il regista negativamente, senza pensarci due volte, poiché semplicemente non ne vede i presupposti. “Lo dico senza presunzione. Non c’è perché io ho avuto la fortuna di avere un piede nell’epoca dei grandi comici”, da Sordi (di cui, su espresso accostamento, ribadisce nuovamente di non esserne mai stato l’erede, avendo una comicità e uno spirito diverso) a Tognazzi e Manfredi, che sono stati da lui “studiati con grande rispetto”. Una base per lui importante e fondamentale per poter costruire una certa sensibilità, seguire un certo tipo di percorso, inventandosi “qualcosa di nuovo”. Ma ancora una volta la speranza è l’ultima a morire e quindi Verone si auspica che quella novità possa essere trovata anche dai più giovani, pur con le difficoltà dettate da una società in cui comunicazione e linguaggio sono ormai stravolte.

Dallo sguardo ambivalente al futuro si passa allora a quello ben più scoraggiato e cinico sul presente, con un occhio riservato sempre al passato. Questo cambiamento di usi e costumi, specie da quell’86 in cui i due fratelli (uno regista, l’altro attore protagonista) registrarono il successo di 7 chili in 7 giorni, arriva a focalizzare la comicità stessa, su cui si è abbattuta duramente la scure del politically correct. Per Luca, infatti, lo stesso principio di satira sulle cliniche dimagranti che muoveva il film, e che all’epoca raggiunse un’universalità tale da ispirare persino un remake spagnolo, oggi sarebbe praticamente se non impossibile, molto difficile da replicare. Continua: ”nel mainstream delle commedie contemporanee si tende a drammatizzare, a rendere più drammatici i problemi, mentre “noi quando l’abbiamo fatto, grazie anche a Carlo e a Renato Pozzetto, gli abbiamo dato quasi una leggerezza fantastica, piacevole”. E sempre sul solco dell’eredità odierna, conclude: “il fatto che non ci siano oggi, tra i giovani, comici come Carlo e Renato, che facevano ironia in quel modo così intelligente, è anche un problema per realizzare qualcosa di originale”.
Anche per Carlo la riflessione è più attuale e problematica che mai, avendone fatto le spese anche nelle sue esperienze più recenti, da Vita da Carlo, la cui scrittura è stata un vero “percorso ad ostacoli” in tal senso, a Si vive una volta sola, in cui il personaggio di sua figlia (una ballerina televisiva in un programma ispirato dal Ciao Darwin di Paolo Bonolis) ha attirato duri attacchi da parte di alcune femministe. Pur riconoscendone alcuni giusti e sacrosanti principi, non ne condivide quindi le derive più estreme e intransigenti: “in questo modo arriveremo a vivere un pochino meno”. Tornando poi a ripensare ai tempi che furono, di Sordi e Tognazzi, i cui film secondo questa visione “andrebbero buttati al rogo”.

Il passato, visto con romantica nostalgia, torna allora protagonista della discussione nell’ultima parte dell’incontro, con l’espediente ancora del ricordo di 7 chili in 7 giorni e dell’apporto fondamentale della bravura e comicità di Carlo, di tutto il cast, e come rivelerà Luca, di tutto il reparto creativo. Non mancano infatti gli aneddoti, fin dalle origini del film, con Cecchi Gori che trovò più che interessante l’idea di Luca, ma solo se ci fosse stato Carlo; alla paternità del titolo, attribuita proprio a quest’ultimo, in riferimento alle pubblicità continue viste in televisione su presunte cure miracolose per dimagrire, associate al numero 7, perché si sa “al cinema porta fortuna. Da I Magnifici 7 7 spose per 7 fratelli”, e così via; finendo col rivelare che molte delle caratteristiche comparse della pellicola furono “rubate” direttamente dal cassetto di Federico Fellini, grazie a un aiuto regista in comune. Ma come detto fu una collaborazione continua e a più livelli, dalla scrittura al set. Per esempio, le battute dei clienti della casa di cura furono “curate da me, Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi”, a cui si aggiunse poi una “buona dose di improvvisazione”di Carlo e Pozzetto, poiché a detta di Luca: “quando si hanno dei grandi attori comici così, li devi lasciare liberi”. E viste le numerose battute cult ancora oggi memorabili, difficile dargli torto.

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