#FCE2021 – Incontro con István Szabó per l’Ulivo d’Oro alla carriera

Il racconto dell’incontro con István Szabó, in occasione del premio alla carriera riservatogli dalla 22esima edizione del Festival del Cinema Europeo in corso a Lecce

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Ospite della ventiduesima edizione del Festival del cinema europeo di Lecce, che l’ha omaggiato con una rassegna dei suoi titoli più illustri, Istvàn Szabó ha incontrato la stampa, in occasione della consegna da parte della manifestazione dell’Ulivo d’oro alla carriera. Szabó è stato tra i principali protagonisti della stagione di rinnovamento del cinema ungherese avviata negli anni Sessanta e culminata nell’Oscar al miglior film straniero nel 1981 per il film Mephisto. Sua ultima opera, invece, della cui travagliata uscita a ridosso dell’esplosione dell’epidemia del Covid-19 parlerà in seguito, è Final Report, presentata in anteprima nazionale proprio al Festival di Lecce.

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Alla luce di una così lunga carriera, piena di successi e riconoscimenti, il moderatore dell’incontro Massimo Causo gli ha chiesto allora qual è stato per lui il momento più significativo a livello di sviluppo artistico e professionale, quello che custodisce i ricordi più determinanti e belli. Per Szabó significa ritornare alle origini, con il suo primo ruolo a teatro, sul palcoscenico: “Avevo 16 anni e allora volevo ancora fare il medico da grande. Ero a scuola e il capoclasse mi dice che avrei dovuto svolgere il ruolo al teatro di un direttore della scuola del 1930 o giù di lì. Quello è stato il mio primo ruolo ed ha cambiato la mia vita“. È stata infatti quell’esperienza, continua, ad avergli infuso la passione in primis per il teatro, al quale sarebbe susseguita poi quella per il cinema. Perciò è stato proprio quel ruolo e la suggestiva atmosfera di quella serata di cruciale importanza per la sua carriera, perché hanno portato a fargli intraprendere strada del regista.

Dall’analisi personale, si passa poi a quella più generale, sui cambiamenti dell’industria cinematografica contemporanea, in relazione al destino della sala minacciata dall’evoluzione tecnologica, dove i nuovi device e la fruizione “tascabile” del mezzo audiovisivo sono al centro della riflessione. Cosa si augura allora Szabó per il cinema? “Non voglio vedere cellulari. Alla fine la macchina da presa non era così male. Non voglio più salire sul tram e vedere queste persone che guardano i film attraverso i cellulari. Quando questo succede, mi rattrista profondamente“. Il suo pensiero va subito al mondo dell’arte figurativa: “Immaginate che i musei fossero chiusi e le opere di Michelangelo o Leonardo fossero possibili da vedere solo su un piccolo francobollo… come sarebbe?“.

Non è un caso che l’autore ungherese citi proprio due artisti nostrani, visto il suo profondo legame col cinema italiano, il quale, racconta, ha avuto un’incidenza fondamentale per la sua formazione e quella di tutta la sua generazione: “Se mi chiedi dei film italiani, il primo titolo che ti faccio è La Terra Trema di Visconti. E poi Vittorio De Sica, tutti i film di De Sica: Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, eccetera… Vedere questi film è come imparare l’alfabeto a scuola. Io appartengo a una generazione cui il latte materno è il cinema italiano. Il primo bicchiere d’acqua sarà pure il cinema francese, ma il latte materno è il cinema italiano. Chiedimi di raccontarti Miracolo a Milano e io te lo racconto fotogramma per fotogramma e intono la canzone del film“. A questo punto Szabó canta uno stralcio dell’iconica colonna sonora della pellicola (seguito, poi, da tutta la sala): “Vedete? Questo per me è il cinema italiano“. Certo, non manca una più malinconica stoccata a quello contemporaneo, invece: “Io non vedo un film italiano da oltre dieci anni. E non accade solo da me, ma anche in altri paesi europei. Mi dispiace aggiungere questa parte di risposta, ma è così”.

Ritornando, nel frattempo, alla rievocazione della sua carriera personale, arriva il momento di ricordare Mephisto e, in particolare, quanto ha influenzato le sue successive produzioni. Innanzitutto Szabó ricorda il suo rapporto con gli Academy Awards: “Prima di Mephisto, avevamo ricevuto un’altra nomination all’Oscar per La fiducia. In tutto sono 5 le nomination che ho ricevuto. Quella fu la mia prima nomination all’Oscar. E durante la cerimonia ammiravo le persone attorno a me, cercavo di viverne l’atmosfera […] Poi quando è arrivata la seconda nomination, l’atmosfera era ugualmente bella, ma era la ripetizione di ciò che avevo già vissuto. […] È stata una serata bellissima, una settimana piacevole. Poi le cose pian piano sono tornate alla normalità“. E qui Szabó si lascia andare alla riflessione forse più cruciale e significativa dell’intero incontro: “Lì ho capito che quell’omino dorato non avrebbe scritto sceneggiature al posto mio. Io avrei dovuto dire al direttore della fotografia dove posizionare la mdp. Io avrei dovuto dire agli attori cosa dovevano fare. Questa è la cosa più importante che ho imparato: dopo l’Oscar ogni film inizia da zero, ogni film è un nuovo film“. E la ricetta di un film di successo, per il Maestro ungherese, è la collaborazione di ogni reparto, perché “il film è fatto dal miglior costumista, dal miglior scenografo, dal miglior operatore, dagli attori in assoluto più talentuosi… Io vi dico questo: un film non è mai fatto solo dal regista, se il film ha successo“, riflessione a cui poi aggiunge, ridendo: “se invece il film non ha successo, la colpa è tutta degli altri“.

Continuando a ripercorrere la sua filmografia, a chi gli chiede quale sia il film preferito tra le sue stesse opere, Szabó non ha dubbi: “il film a cui sono più affezionato è Il padre (1966, NDR), che ho girato a 26 anni”. Il perché è presto detto, ossia che a differenza di molti altri suoi lavori, quando lo rivede “non mi viene voglia di avere un gigantesco paio di forbici per tagliare, tagliare…“. A proposito del modo in cui sceglie gli attori e del rapporto che ha con loro, invece, il regista rivela di costruire le sceneggiatura avendo già in mente quelli che vorrebbe scritturare, “poi certo potrebbero essere diversi in seguito, ma questo è il metodo con cui ho sempre scritto“. Non è stato così per Klaus Maria Brandauer (che “ho incontrato per caso“), ma solo all’inizio, perché dopo quell’esperienza “per i successivi ho sempre avuto in mente lui. Io mi sento un po’ come un uomo in un circo che guarda i talenti più belli volare come trapezisti sulla sua testa, in attesa che se uno cade, io devo esser lì con le braccia protese a salvarlo”. E quasi a confermare la sua lontananza dalle piattaforme streaming, gli si fa notare che di Mephisto non ce n’è traccia su alcuna, per chi oggi volesse recuperarlo in rete. Ma stavolta, dice, non è affatto una sua scelta: “c’è un problema di fondo. Il produttore del film è molto molto giovane e chi ha diritti adesso è una donna che non ha interesse per i vecchi film e non sta facendo niente. Abbiamo chiesto in merito e non abbiamo ricevuto risposte. Il film è arenato per queste ragioni. So che è disponibile in DVD ed è stata rilasciata una versione Blu-Ray a New York, mentre ora si sta parlando di un’altra per Londra“.

Concludendo sull’attualità, è impossibile non affrontare la tematica del Covid, di come lo abbia attraversato, ma soprattutto, come anticipato, gli effetti che hanno avuto sui suoi lavori: “Durante il lockdown, o meglio subito dopo, ho avuto un’esperienza piuttosto triste. Due settimane prima del lockdwon in Ungheria era uscito il mio ultimo film (Final Report, NDR), che è stato nelle sale per 2 settimane, raccogliendo trentamila spettatori, che sono un numero impressionante in Ungheria. Ecco, dopo 2 settimane hanno chiuso tutto e il film è scomparso dai radar“. Per quanto riguarda, invece, la sua produzione artistica, racconta di non aver pensato al cinema o ad un’eventuale prossima opera, poiché “era diventato tutto nero“. E allora, l’unica componente artistica di questo periodo è stata quella letteraria, con l’aiuto di sua moglie, in cui ha riscoperto i grandi classici del passato:”ho passato tempo a casa e ho letto molti libri, tra cui quelli che mia moglie mi dava. Lei sa il fatto suo, vi tranquillizzo, è insegnante di letteratura (ride, NDR). A scuola ci assegnavano testi obbligatori scolastici e noi non li leggevamo mai, guardavamo giusto file figure, leggevamo i nomi dei personaggi, per rispondere all’interrogazione. Sono passati 60 anni, ma adesso li ho letti davvero, con grande piacere“.

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