FEFF 25 – Intervista a Ryuichi Hiroki

Ospite del Far East Film Festival, il grande regista giapponese ha ripercorso con noi la sua lunga carriera, dai temi a lui più cari all’impatto del digitale sul cinema nipponico

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Quando pensiamo ai grandi cambiamenti produttivi, tecnologici e strategici che hanno rivoluzionato l’industria cinematografica giapponese negli ultimi 40 anni, risulta (quasi) impossibile non citare il nome di Ryuichi Hiroki. Non solo per la qualità e la coerenza espressiva che le sue opere hanno dimostrato nel corso di quattro decadi, ma in particolare per la capacità del cineasta di attraversare con mestiere tutti gli orizzonti estetici del cinema nipponico, dai pinku eiga (film erotici) delle origini, ai prodotti per il video (V-cinema) fino agli esordi nelle produzioni indipendenti e mainstream. Lo abbiamo incontrato al Far East Film Festival di Udine, dove il regista ha presentato i suoi due nuovi film, You’ve Got a Friend e Phases of the Moon. La manifestazione ha inoltre omaggiato il cineasta nipponico con la proiezione di 800 Two Lap Runners, film che lo portò alla ribalta in Giappone nel ’94.

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Partiamo proprio da una panoramica della tua filmografia. Ogni volta che rifletto sul tuo cinema, c’è sempre un’immagine che mi torna in mente: quella di una giovane ragazza in crisi che vagabonda nello spazio, come se non avesse alcuna direzione, alla stregua di un fantasma. Tanto che i conflitti dei tuoi personaggi femminili sembrano manifestarsi sempre a partire da un “movimento nel vuoto”, da questo “girovagare”. Lo vediamo in film come Last Words (2007) River (2011) o Side Job (2017) dove lo spostamento fisico suggerisce un tentativo da parte delle protagoniste di metabolizzare il lutto, oppure in opere come Girlfriend (2004) Vibrator (2003) e Tokyo Trash Baby (2000) in cui il movimento nello spazio anticipa la ricerca dei personaggi del loro posto nel mondo. Ecco, quando inizi a lavorare su un film e a delineare di conseguenza il conflitto drammatico della storia, parti proprio da qui? Da questo rapporto tra la donna e la realtà che la circonda?

Innanzitutto sono felice che tu abbia seguito la mia carriera sin da Tokyo Trash Baby. Dal mio punto di vista, già solo per il fatto che tu abbia percepito queste soluzioni, le rende di conseguenza vere. Io generalmente quando realizzo un film, non sono così conscio degli elementi che ne costituiscono la struttura. Però se hai notato una tale ricorrenza, allora questa che hai appena indicato è con molta probabilità una caratteristica tipica del mio cinema. Al tempo stesso, c’è una cosa di cui sono sicuro e che vale per molti di noi. Perché nel cinema, come nella vita, esiste sempre uno spazio interiore, e nel momento in cui si cerca di indagare ciò che è esterno ad esso, bisogna avere coraggio per esplorarlo. Io non sono tanto interessato a giudizi etici o morali, cioè a decretare se questo movimento verso l’esterno sia giusto o sbagliato: l’importante è cercare di uscire dal proprio ambiente. Con l’emersione da questa zona “personale” si può arrivare a ferire qualcuno, a gioire o a far gioire il prossimo. Se ci pensiamo, noi essere umani cresciamo in maniera progressiva, senza mai tornare indietro. Quindi questa azione di uscire dalla propria zona e affrontare le conseguenze che ne derivano è un qualcosa che desidero rappresentare nei miei film.

 

Soffermiamoci un attimo sull’avvento delle nuove tecnologie. Tra le grandi industrie cinematografiche del mondo, quella giapponese è stata tra le primissime, se non addirittura la prima, ad adottare in maniera sistematica i linguaggi del digitale. Tu stesso, alla pari di illustri colleghi come Kiyoshi Kurosawa, Takashi Miike e Rokuro Mochizuki, hai lavorato a lungo nel V-cinema [produzioni per il video] per poi girare film in digitale – distribuiti quindi nelle sale – già verso la fine degli anni ’90. Secondo te a cosa è dovuto storicamente questo fenomeno? O meglio, quali sono i motivi che hanno spinto i produttori e i registi giapponesi ad abbandonare così in anticipo la pellicola, in favore dei nuovi dispositivi digitali?

In realtà credo che la ragione principale di questo fenomeno sia di natura propriamente economica. Per passare dalla pellicola al digitale era necessario produrre, distribuire ed utilizzare nuove tipologie di strumentazioni. Tutto questo ha messo in moto un’intera macchina produttiva, motivata dalla necessità di far girare – e quindi rinnovare – l’economia industriale del paese. In questo senso, per poter uscire da quella che stava diventando una cornice economica fortemente stagnante, almeno per quello che riguardava l’elemento tecnico, in Giappone si è subito deciso di puntare sul digitale, così da creare un’economia nuova.

Una decisione, questa, che sembra derivare proprio dalla natura capitalistica del paese, soprattutto se consideriamo il repentino passaggio dai fasti economici degli anni ’80, allo scoppio successivo della bolla finanziaria.

Si, esatto. Non bisogna dimenticare che il Giappone è una nazione dominata da una mentalità fortemente capitalistica. A quei tempi, inoltre, non c’era neanche la percezione che le nuove tecnologie potessero davvero rinnovare il cinema. E invece, nella realtà dei fatti, utilizzando il digitale è cambiato di molto il modo di lavorare ai film, sia per quanto riguarda le riprese, sia per quel che riguarda le strumentazioni e i contenuti stessi dei racconti. I cambiamenti, perciò, ci sono stati: non sto qui a dire se queste evoluzioni siano state positive o deleterie. Senza dubbio, con l’avvento del digitale, il mondo del cinema ha subito una trasformazione più che profonda. Da non legare ai soli aspetti formali.

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