FEFF22 – Ip Man 4, The White Storm 2, e il ritorno di Johnnie To

Come vanno le cose dalle parti della grande industria che si barcamena tra Hong Kong e Cina? Il Far East propone i nuovi capitoli di due saghe di successo, e Chasing Dream, l’ultimo Johnnie To

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Sono passati un bel po’ di anni da quando Benny Chan ci raccontava a Roma del suo The White Storm come tentativo di esportare lo stile dell’action poliziesco hongkonghese nel vastissimo oceano di possibilità del mercato cinese. Un’operazione, questa del travaso di generi tra Hong Kong e la nuova industria continentale, che da più di un decennio ha un esempio cristallino della saga di Ip Man, ora giunta al quarto episodio “ufficiale” (più una serie arzigogolata di spinoff avanti e indietro nel tempo, più o meno legati al filone principale con Donnie Yen), e che guarda caso è in selezione in quest’edizione online del Far East Film Festival proprio insieme al sequel di The White Storm, Drug Lords, stavolta diretto da Herman Yau.
Ip Man 4: The Finale conferma gli elementi della formula di razionalizzazione del wu xia coniata da Wilson Yip per la saga, che asciuga qualunque esagerazione visionaria del genere di appartenenza per ancorarsi ad una rievocazione storica più “normalizzata” da successo mainstream, tutta al servizio del budget e della salvaguardia del genius loci cinese pur partendo da una leggenda glocal come Bruce Lee e il suo leggendario maestro. In mezzo c’è però stato C’era una volta a… Hollywood, e dunque il Bruce Lee incarnato ancora una volta (dopo l’apparizione nel terzo film e la serie The Legend of Bruce Lee) da Danny Chan deve rispondere anche dell’infamous resa della gag tarantiniana vs Brad Pitt, a cui rende giustizia qui una bella sequenza di street fight contro un energumeno statunitense, non appena i nostri due eroi si sono salutati.
C’è da dire che l’avventura a San Francisco di Maestro Ip inanella un altro paio di intuizioni funky come l’adepto black Billy, a simbolo della fascinazione degli afroamericani per il kung fu nei 70s (come raccontato en passant ultimamente proprio dallo Spike Lee di BlacKKKlansman), prima di andarsi ad incanalare anche stavolta nell’annosa diatriba tra preservazione e occidentalizzazione dell’arte marziale, superiorità del kung fu sugli altri stili di combattimento, e così via. Lo scontro finale vede stavolta, dopo il Mike Tyson del film precedente, Donnie Yen affrontare Scott Adkins, star del cinema-B marziale d’America, ma il vero pezzo forte è il match contro un altro grande nome del roster di casa, Wu Yue, noto per aver più volte interpretato proprio il ruolo di Chen Zhen, il Chen di Bruce Lee a cui anche Donnie Yen ha reso omaggio con Legend of the fist, nel 2010. Una sequenza quasi pari al combattimento con Sammo Hung del secondo capitolo.

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Dal canto suo, Herman Yau (che ha diretto tra le altre cose due Ip Man “apocrifi”, un prequel e un ultimo atto con Anthony Wong) raccoglie il testimone da Benny Chan e perde parte della squadra del primo White Storm, confermando Louis Koo e acquistando l’immenso Andy Lau. La fortuna al botteghino dei drug movies d’Oriente è rimasta intatta negli anni, e l’incipit sembra voler mantenere il tono livido del gran lavoro di Chan, e la relativa passione per gli arti mozzati che lo caratterizzava: poi però il film non sembra mai in grado di accendersi davvero di quel fuoco di vendetta e rivalsa che anima le pirotecniche circonvoluzioni delle vicende esistenziali dei tre protagonisti. Peccato, perché i freni vengono mollati sul serio solo per il notevole inseguimento tra automobili dentro la metropolitana (!) che chiude l’opera, l’unica sequenza d’antologia di un sequel un po’ generico (non ha infatti alcun legame con i fatti narrati nel capostipite), fatta salva se vogliamo aggiungerne un’altra giusto la sparatoria in ospedale che è un evidente rimando ai classici, tra corsie, barelle e sedie a rotelle con ferito incosciente.

Insomma, è evidente che gli stilemi del genere hongkonghese vanno soffrendo da tempo una crisi importante (anche al di là dell’attuale trambusto sociopolitico che ne investe le strade), dilaniati tra una purezza oramai divenuta brand di mercato, e orizzonti virtuali universalizzati dentro cui smaterializzarsi senza via di ritorno: Chasing Dream rompe un silenzio troppo lungo per i ritmi abituali di Johnnie To, che avevamo lasciato con Office ormai cinque anni fa, e da un lato sembra proseguire le tentazioni musical di quel film, mentre dall’altro affrontare di petto proprio la questione stessa dell’identità cinematografica hongkonghese.

Se oramai l’intero linguaggio è diventato quello dei talent show, allora non ha davvero più senso discutere di originalità, innovazione, provenienza dei segni (Madonna! Lady Gaga! Rihanna!): la sfida dalle parti di Milkyway è sempre stata quella verso l’eclettismo degli stili (tip tap! salsa! hip hop!), e non c’è bisogno di affrontare il televoto per dimostrare come si possa far scaturire il cinema più luminoso proprio dalle deviazioni continue, dalle giravolte esponenziali come quelle di Tiger sul ring (anch’esse imbastardite, non più illibate), dalle sospensioni dei canoni che sembrano voler seppellire sottoterra i solchi classici dello sport movie e del canovaccio in stile a star is born per farli rinascere tra gli schermi degli smartphone, dentro il flusso inarrestabile della diretta perenne.
Ecco, tra le altre cose Chasing Dream è il primo film di Johnnie To a riflettere apertamente sull’adieu au language del digitale mobile, sulla fine dell’epica per mano dell’user generated in grado di riscrivere costantemente il volto e il destino dei propri eroi, e i confini della propria morale. Come può allora questo cinema che è sempre stato il più etico di tutti sopravvivere in questo sistema che si alimenta di immagini al ribasso, e di connessioni a singhiozzo ma ostinatamente replicanti?
Johnnie To e il fedelissimo autore Wai Ka-Fai sanno che ad un certo punto bisognerà interrompere lo spettacolo, sabotarlo, far saltare per aria le regole della diretta e della partita truccata – per risanare l’immagine, alla ricerca di un frame che finalmente riesca di nuovo a contenere tutte le storie disperse in quest’epoca di frammenti, inseguire anche solo la possibilità di riunire i destini dentro un unico monitor, fa niente se poi è solo quello di un telefono, come accade nell’inquadratura finale. La condivisione comunitaria anche solo di un classico pranzo luculliano alla Johnnie To (anche questo, mutuato dai menu di questo o quel ristorante alla moda). Ecco, attenzione a non scambiare Chasing Dream per uno dei prodotti tipicamente “pop” e di routine di casa Milkyway: la fuga della protagonista Cucù dal palcoscenico del format per invadere lo spaziotempo della diretta che va svolgendosi sul canale affianco, distante solo una corsa a perdifiato, è al contrario una delle immagini più straordinariamente lucide e potenti dei tempi binari in cui viviamo. Accettando una buona volta di vivere la loro storia d’amore così straordinariamente “classica” (il boxeur e la ballerina…), Cucù e Tiger rimettono in gioco gli stilemi del Mito  (anche genuinamente hollywoodiano) nel tentativo di elevare il palinsesto quotidiano verso le vette del cinema, l’unico sogno comune ancora possibile nonostante lo svilimento dei desideri ad opera della macchina del talent(o) automatizzato.

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