FEFF22 – Watanabe Hirobumi, cammina ragazzo laggiù!

Il Far East Film Festival ha dedicato un focus, di quattro titoli, su uno dei registi più interessanti del panorama indipendente nipponico, poco conosciuto e ancora scarsamente apprezzato in Europa

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Il Far East Film Festival quest’anno ha dedicato un focus sul regista giapponese, Watanabe Hirobumi, con quattro titoli della sua filmografia, tra anteprime nazionali e mondiali. La manifestazione di Udine, punto di riferimento imprescindibile per l’Occidente sulle nove proposte dell’Estremo Oriente, non ha perso l’occasione, nonostante l’edizione sia stata interamente realizzata online, di far conoscere uno degli autori indipendenti emergenti del Sol Levante. Nato nel 1982 a Otawara, una piccolo centro di 80.000 abitanti a Est di Tokyo, Watanabe, dopo la laurea in Letteratura giapponese, ha cominciato a realizzare i suoi primi lavori video. Nel 2013 costituisce, insieme al fratello Yuji, compositore delle musiche (tra l’altro, davvero belle…) la Foolish Piggies Films, casa di produzione low budget. Dal 2013 non si ferma più, gira praticamente almeno un lungo all’anno e riceve diversi riconoscimenti nazionali importanti, tra cui il premio miglior regista al 32esimo Tokyo International Film Festival del 2019, per Cry, una delle quattro proposte del Far East, forse la più politica, immersione grottesca e alienante nella quotidianità di un allevatore di maiali, senza dialoghi, solo grugniti rigorosamente in bianco e nero.

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È impressionante quanto di cinematografico e di “anti” ci sia contemporaneamente, praticamente all’unisono, nell’espressione artistica di Watanabe. Personaggio, anche attore, più o meno protagonista, delle sue stesse opere, che non lascia certamente sperare in un cambio di passo, una sferzata visiva o scenica, per cui tutto sembra avvolgersi in un costante e interminabile refrain, un’inattaccabile reiterazione narrativa. Si racconta di tempi e luoghi lontani, di provincia, superati, divorati a volte, in cui ogni cosa sembrerebbe restare intatta, come gli indumenti dei protagonisti, incastonati nel bianco e nero delle immagini delle location che si stratificano e ritornano come echi, richiami del passato, rifugi del presente. Party ‘Round the Globe del 2018 è un tergiversare logorroico in auto per raggiungere il concerto di Paul McCartney a Tokyo, in compagnia dell’amico Honda che guida e non dice neanche una parola, subendo in silenzio il soliloquio devastante del regista/attore. Ma in fondo, quel viaggio, con geniali saltelli temporali, è una sorta di preambolo della festa di compleanno della nonna centenaria.

È in questi frangenti che non puoi fare a meno di rivederci Jarmush nelle “slice of life” e Kaurismaki nel piantarsi dentro, senza contare quella evidente, anche se solo fugacemente sentita, impronta pasoliniana sulla solitudine. In Life finds a Way del 2018, il personale 8 e mezzo, e I’m really Good del 2020, racconto di una tipica giornata della piccola Riko, cresce forte poi più chiaro e inconfondibile il richiamo evolutivo di un ragazzo cresciuto tra classici europei e statunitensi e vita rurale, senza una sala cinematografica in cui perdersi e magari addormentarsi, come spesso gli succede durante le sue storie, a volte troppo espanse da far collassare anche l’attenzione. L’unico rimedio è camminare, e si cammina tanto nel cinema di Watanabe, magari tornando spesso sui propri passi, non avendo timore di rifare la stessa strada più volte al giorno, dando solo ai meno attenti la sensazione di essere un animale chiuso in gabbia, pronto a cercare un varco, una via di fuga. Camminare è la medicina di cui tutti abbiamo bisogno, da assumere a dosi regolari, grandi e piccole, un giorno sì e l’altro pure.

È il superpotere che fa bene al corpo e allo spirito. Perché camminare non solo ci rende più sani ma può anche aiutarci a diventare essere umani migliori. Watanabe e i suoi interpreti camminano continuamente, a volte si rinchiudono in un abitacolo in movimento, ma è soltanto il pretesto per guardarsi sempre dentro, in fondo il tratto che ci differenzia da tutti gli altri esseri umani non è la capacità di pensare o di parlare, sicuramente due prerogative esclusive dell’uomo, ma essersi alzati su due piedi e aver intrapreso il cammino. Se le opere low budget di Watanabe, con distorsioni audio, suoni naturali in presa diretta, cromatismi imperfetti, inquadrature mai forzatamente ricercate e manierate, fossero intese come opere realmente libere e indipendenti , non potrebbero essere considerate neanche minimamente opere “stanziali”, perché camminare è il vero viaggiare, perché camminare è non stare mai fermi. Watanabe Hirobumi cammina, parla molto, resta in silenzio a lungo, non cambia apparentemente nulla, né i suoi indumenti e neanche la stazione radio o l’emittente TV, che sciorinano news di crisi politica, sociale e finanziaria. Ma è solo l’involucro che resta intatto, nel profondo c’è tanto ancora da smuovere.

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