"Femme fatale": Svegliatevi!, i pop-corn sono finiti

Il film di De Palma produce una torsione estetica e morale che attuata in una geografia del cinema come quella hollywoodiana, così poco votata a minimi empirismi e soprattutto a un pubblico con un sano gusto del patologico, crea ulteriormente uno scompenso a quello spettatore che tra un pop e un corn e uno sbadiglio non sa più dove&come guardare, d

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De Palma sa muovere la macchina da presa come pochi, ma il suo cinema è un freddo esercizio di stile, senza cuore e senza un briciolo di emozioni, Femme fatale n'è l'ennesima prova.

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No, non vi preoccupate, noi fringuelli di Sentieri selvaggi ci situiamo lontani anni luce da un'affermazione di questo genere che pur non è difficile leggere anche in questi giorni fatali.


De Palma lo conosciamo da tanti anni, tanti sono anche i suoi film passati di fronte ai nostri occhi vogliosi d'essere, per una volta ancora, stupiti e divertiti da quel caleidoscopico cinema che è forse uno dei più importante eccipienti di illusionismo che le arti visive moderne conoscono, ma ahinoi è altresì vero che, a ogni sua uscita e in barba ai suoi lavori, si vorrebbe condividere ogni volta una passione che travalichi lo schermo e vada a cellophanare i suoi personaggi come fossero prodottini da thriller pentecostale. Si vorrebbe giocare ad ammiccare confidenzialmente con loro per poi crogiolarsi nella telenovelliana pratica del compiacimento emozionale. Mentre non ci si forza minimamente di capire che De Palma, che il suo cinema fatale fattuale fatalmente inarrivabile, trova la sua forza (estetica) proprio nella immensa lacerazione che corre tra lo spettatore e lo schermo. Lo si percepisce freddo il suo cinema, certo, De Palma ci vuole attenti spettatori, chirurghi dall'occhio asciutto, fermo e puntato ineluttabilmente su un circo delle meraviglie non desiderante  altro che un sano e puro atto del guardare, dello scoprire e dell'alimentarsi semplicemente osservando, fotografando. Ci piacerebbe strizzare l'occhio a De Palma e aspettare la sua risposta, ma invece ci tocca tenerlo ben spalancato e farci filtrare più luce possibile in una interazione scopica chiusa a qualsiasi emozione, se non quella abbacinante, folgorante e vivifica della Visione.  


Si è detto che con questo film il regista gioca col noir, è vero, qualche scheggia wilderiana, un goccio di onirica langhiana, la glaciale femme fatale del titolo (tra l'altro a un film che porti un nome come questo e alle sue vestigia dark non si può certo recriminare un minimo nitore di glacialità) e il gioco è fatto. Ma non è certo questo a fare di Femme fatale un'opera di estrema lucidità teorica e ambiguità estetica, altroché il solito esercizio di stile.


De Palma si diverte (ancora e sempre più, fortunatamente) a cortocircuitare i sensi e la morale dello spettatore coinvolgendolo in un detour visivo. Volete essere compromessi, provare emozioni? Ok, ma qui le emozioni si vendono a caro prezzo, che non è certo quello del biglietto, ma quello di una semplice decisione: decidere dove guardare.


E non è mica una cosa da poco, c'è bisogno di uno spettatore attivo (purtroppo spesso costoro latitano), che contribuisca alla realizzazione della messinscena, che metta in discussione se stesso e collochi, da solo, i punti di fuga del suo sguardo su uno schermo che spesso non consente vie di fuga.


Il regista adotta lo split screen, e ama il piano sequenza. Niente di più antitetico. Si vuole fare entrare dalla finestra quello che bazininamente si era fatto uscire dalla porta. Sta qui l'ambiguità e forse l'immoralità di Femme fatale. Lo spettatore a questo punto è costretto a riconsiderare più volte l'idea di tempo e spazio: nello split screen (pratica molto usata nei videoclip ma quanto mai pericolosa al cinema, soprattutto se usata da teorici dell'ultima ora come il Darren Aronofsky di Requiem for a dream) infatti, si frantuma la posizione privilegiata di un personaggio nella geometria drammatica dello spazio e si annienta, grazie al montaggio interno all'inquadratura, l'idea di continuità e fluidità che il piano sequenza aveva messo in campo. Ma questa torsione estetica, dunque morale, attuata in una geografia del cinema come quella hollywoodiana, così poco votata a minimi empirismi e soprattutto a un pubblico con un sano gusto del patologico, crea ulteriormente uno scompenso a quello spettatore che tra un pop e un corn e uno sbadiglio non sa più dove&come guardare, dove&come farsi guardare.


Con il suo cinema, signori, bisogna essere giocoforza esclusivi, radicali, categorici. Non è possibile credere a un'ammirazione che resti incagliata alla forma esteriore del suo pensiero e rifiuti poi di abbracciare toto corde ciò su cui il suo pensiero si fa forza.  Non si può ammirare senza andare oltre l'astrazione teorica, non è possibile sbavare su un piano sequenza e poi recriminare che è tutto lì. Sarebbe come dimenticarsi della amalgama retorica che quel movimento di macchina porta con sé, vorrebbe dire sputare in faccia all'est-etica che veicola. Questo purtroppo lo abbiamo già fatto in passato, vogliamo farlo ancora, non è servito il decennale scorrere nouvellista di nitrato argenteo? 


 

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