Ferro 3. Un estratto da Kim Ki-duk. Il profondo dolore degli umani

In occasione dell’evento di venerdì 4 ottobre, un estratto del volume edito da Sentieri Selvaggi e curato da Massimo Causo, dedicato al maestro del cinema coreano

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In occasione dell’evento di venerdì 4 ottobre, con la proiezione gratuita di Ferro 3, vi proponiamo il saggio di Massimo Causo dedicato al film, pubblicato nella monografia edita da Sentieri Selvaggi KIM KI-DUK. Il profondo dolore degli umani, dedicato al cinema del maestro coreano (qui il link per acquistarlo).

 

“Presente e trasparente, sempre più leggero e infrangibile, eppure immancabilmente ancorato alla realtà, dentro/fuori un mondo al quale disappartiene per scelta e necessità: Kim Ki-duk giunse “a sopresa” nel concorso di Venezia61 con Ferro 3, pochi mesi dopo aver presentato alla Berlinale La samaritana, conferma di un talento che produce a ritmo battente opere sempre coerenti con il suo universo poetico, fatto di lucida disperazione e sereno distacco dalla realtà.

Dopo Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera e l’amarissimo La samaritana, Kim Ki-duk elabora con Ferro 3 un’opera definitivamente sospesa tra la concretezza del mondo reale e l’astrazione di una realtà interiore, che ridisegna le coordinate dell’esistere, modellandole sulla libertà spirituale di personaggi sradicati e assoluti. Il film racconta la parabola di una estraneità che si scopre identità: la storia di Tae-suk, un ragazzo che attraversa i sobborghi di Seoul, abitando clandestinamente le case momentaneamente lasciate liber dalle famiglie in vacanza. Entra, mette in ordine, lava la biancheria e la mette ad asciugare, cucina, fa il bagno, guarda le foto, dorme, ripara gli oggetti guasti… Insomma “vive” la sua vita nella vita altrui, ombra presente all’assenza degli altri, presa in una ritualità silenziosa e confidente, fatta di gesti che disegnano una storia quotidiana, occupando la “vacanza” dei legittimi proprietari di quelle case.

Non dice una parola questo ragazzo, né mai la dirà per tutta la durata del film, neanche quando prterà via con sé Sun-hwa, una giovane donna che ha incontrato in una di queste case, moglie infelice (e malmenata) di un ricco e insensibile marito, che gioca a golf in giardino. Con lei condividerà il silenzio di un amore sospinto di casa in casa, basato su una comunicazione inscritta nella solitudine che si sposa alla compresnione reciproca, nella sfera di una solidarietà che emana emozioni e traduce la vicinanza in sentimenti.

L’unità di due corpi in fuga dalla realtà – chiave d’accesso a un amore altrimenti inconoscibile in tutto il cinema di Kim Ki-duk – si traduce in una gestualità astratta del mondo, sempre più ideale e assoluta, sospesa sulla fuga prospettica di un agire che disegna atti opachi ma necessari, scontornato nel vuoto pneumatico di un mondo distratto e violento. Quando poi la polizia intercetta i due clandestini, l’unità si disperde fisicamente, ma non spiritualmente: la donna viene restituita all’arrogante marito, e al ragazzo, finito in cella, non resta che distaccarsi dal corpo, rendersi sempre più fantasma, idea di una trasparenza dello spirito che si libera dalle mura della prigione. Una “evasione” tutta spirituale, che gli permette di tornare ad abitare la casa della sua amata, fantasma persistente e invisibile col quale la donna convivrà, ritrovando il sorriso della felicità. Trovata geniale di un regista che ormai ha talmente slargato il canale di connessione tr l’essere e l’esistere da disperdere in esso ogni rancore possibile: i personaggi di Kim Ki-duk si annullano ormai nella dolcezza di un’idea che travalica il mondo, pulsione zen di una rabbia che non ha più corpo attraverso il quale esprimersi.”

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