FESTIVAL DEI POPOLI 56 – Del verbo filmare

Un cinema che riguarda il reale non può essere il documento di una realtà non inquadrabile, ma solo un’interrogazione costante rispetto a ciò che si vede, e quindi rispetto a sé e al proprio sguardo

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Incipit. “Un film non è mai il film che vuoi fare. Quando fai un film non resta niente di quello che volevi fare”. È da queste parole, che aprono Du verbe aimer, il primo “documentario” di Mary Jiménez, a cui il Festival dei Popoli dedica la retrospettiva di quest’anno, che occorre partire, forse. Da questo scarto incolmabile che c’è tra il film prodotto e finito, il testo, e le intenzioni, i desideri che hanno accompagnato, accompagnano l’atto del filmare. Ma ancor prima, dall’evidente constatazione che l’atto concreto, la pratica non può mai coincidere del tutto con l’intenzione, con l’idea o il sentimento iniziali. Da un lato c’è un’urgenza, dall’altro c’è un oggetto che si svincola da quest’urgenza, fin quasi da prescinderne. E allora c’è sempre qualcosa che si perde, a opera finita, un che di meno, un difetto rispetto al primo impulso, un tradimento irrimediabile che ha il sapore di una ferita. Ma, inevitabilmente, anche qualcosa di più, qualcosa che va oltre e si anima di vita propria, spingendosi in direzioni non previste. Come un figlio che si è staccato in modo definitivo dal grembo materno.

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du verbe aimerÈ il 1984. Mary Jiménez prova a tornare dal suo “esilio” belga, per girare un film sui folli delle strade di Lima. Ma non può che fare i conti con la propria “follia”, quella indotta e costruita dalle aspettative e dalle regole esterne, dalle deformazioni psicanalitiche sui concetti di normalità e malattia. E soprattutto con la perdita della madre, morta per un’esplosione di gas a casa, figura ormai distante, dall’altra parte dell’oceano, eppur sempre dolorosamente presente. Al punto che la sua assenza potrà definirsi solo a partire dal peso della sua presenza.

Ecco, se un film non è mai il film che si vuol fare, se non “ci corrisponde”, allora, forse, tanto vale non finirlo, non chiuderlo in una forma compiuta, che ne sancisca l’autonomia definitiva, la dolorosa lontananza. Tanto vale non avere affatto un film, l’opera da consegnare e mostrare, ma accontentarsi di una serie di immagini che si inseguono e che inseguono il senso delle parole. Inseguimento affannoso, forse vano. Perché la scrittura è verticale, scava nel profondo, nel senso dei pensieri e dei ricordi, mentre le immagini procedono in orizzontale, si accostano l’una all’altra lungo la superficie delle cose. Come una teoria di apparizioni colte nella virtualità del visibile, strappati all’indeterminatezza della realtà secondo il gioco incerto del caso e della predeterminazione. Non che il contatto non ci sia, la coincidenza, ma avviene in quel punto dello spazio in cui le due rette si incrociano, per poi ritornare alla solitudine del loro tracciato. In quel punto non c’è che un senso, un significato. Per il resto i percorsi sono infiniti.

 

Du verb aimerDu verbe aimer, probabilmente, non è un film. Perché non sembra aver struttura, limiti certi, non è iscritto in un quadrato, quindi non è inquadrato. Non ha neanche un soggetto sicuro, se non quest’idea di addurre prove, “la prova che avevo pianto”… Tutto è allora una ricerca, un processo, prima ancora che un’opera compiuta, un’interrogazione costante sul senso e sulle possibilità “del verbo amare” e, di riflesso, sul senso e la possibilità del filmare come ricerca.Penso che sia poco interessante fare un film che si ha già tutto nella testa, e in cui il filmare e montare non è altro che eseguire il progetto. Per me fare film è un’altra cosa. C’è un momento, direi, dove il film richiede di essere fatto”… Fuori dal programma, dall’ansia del controllo, accettando anche il rischio dello smarrimento, di perdere le coordinate. Ma, comunque, con la consapevolezza che tutto questo costituisce comunque un’esperienza, la possibilità di porsi su un altro piano di ascolto e comprensione rispetto a sé e all’altro.

 

A festa e os caesMagari è proprio questo l’unico senso possibile di un cinema che riguarda il reale, che non può essere il documento di una realtà in fondo non inquadrabile, ma solo un’interrogazione costante rispetto a ciò che si vede, e quindi anche rispetto a sé e al proprio sguardo. Un viaggio aperto, senza centro, in cui le tracce si confondono e l’osservazione si sposta continuamente dall’interno all’esterno, nell’alternarsi delle prospettive e dei punti focali. Come in Une partie de nous s’est endormie, in cui il protagonista, il “soggetto interrogato”, non ha un’identità sicura, un contorno netto, è un alias che si perde nella babele dei nomi e nei labirinti di una città sconosciuta, che si racconta ma non per questo si chiarisce. Al punto che Marie Moreau, l’autrice, è costretta a mostrarsi in prima persona, a mettersi in gioco ribaltando le domande e il punto di vista. Forse, qui, la ricerca sembra arenarsi nel formalismo. Ma ne rimane intatta l’ansia. Quella di una scoperta inattesa, di una realtà che si apre agli occhi in un momento non programmato. Ma se la realtà è un presupposto, gli occhi restano essenziali, con l’azione che ne consegue. La soggettività, l’investimento personale sono la condizione necessaria per selezionare e ricollegare le immagini, i ricordi, i brandelli stessi delle cose, come in A festa e os cães di Leonardo Mouramateus, tenero, commosso, privatissimo rito di passaggio celebrato a partire da una serie di foto, un archivio da animare. Lo sguardo investe il mondo, fino a produrre un’altra realtà. Fino alla vertigine di La familia chechena di Martín Solá, regista argentino che va alla scoperta della danza zikr, rituale affascinante ed estenuante del sufismo. Il ritmo, il corpo, la fatica, l’estasi. Questo è il dato. Che agisce sull’immagine, fino a farla traballare, quasi a spezzarne i limiti in un sussulto incontrollato, sconvolgente. Eppure l’immagine stessa agisce su quei corpi. Solá sta loro addosso con un’insistenza quasi altrettanto estenuante. E minuto dopo minuto i movimenti sembrano divenire sempre più liberi, aperti, perdono la loro fisicità per entrare in una dimensione altra, fino a farsi astrazione. L’ansimare si fa suono, musica, tutto è segno, ma i volumi son senza contorno e le linee senza meta. Il cinema, l’infinita fabbrica, replica il suo movimento e va in trance. E disegna un mondo “immaginario”, un paesaggio notturno segnato da punti di luce. Non esiste più la guerra, il conflitto. È tutto un solo Respiro.

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