Festival dei Popoli 59 – Srbenka, di Nebojša Slijepčević

Il Concorso Internazionale del 59° Festival dei Popoli si apre con “Srbenka”: intensa riflessione sul concetto di nazionalità giocata tra teatro e cinema, ove è il fuori campo a generare il dolore

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Un aggregato di traumi, vessazioni e squarci di memoria storica e individuale ricompare brutalmente da un passato recente provocando il sobbalzo della consapevolezza e del dolore mai sopito. Perché ci troviamo in Croazia, oggi, ad assistere alle riprese delle prove di uno spettacolo teatrale contemporaneo; ma siamo anche precipitati negli anni Novanta, con la mente che ritorna alle ferite della lunga guerra serbo-croata, aspettando che se ne concepiscano coscienza e postumi odierni.
L’operazione condotta dal regista Slijepčević è di esemplare lucidità: l’attraversamento di un vero e proprio campo minato collettivo, il campo della nazionalità prima e della guerra dopo, avviene attraverso l’osservazione dei mezzi del teatro, luogo supremo di ricerca della verità e/o crudeltà di fatti e sentimenti, moltiplicandone così gli effetti allo specchio. Avviene, al contempo, come incontro di parole – il lavoro di confronto sul testo e i racconti di vita vissuta dai personaggi-persone – e di corpi a lavoro, a partire da un training emozionale e umano.

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Il bisogno di riprendere sul palcoscenico la drammatica storia di Aleksandra Zec, bambina serba ferocemente assassinata a Zagabria nel 1991 insieme alla famiglia, apre per attori e regista lo spazio di una riflessione comune, scavo di memorie ed emersione di parole nuove su questo caso e su molti altri simili, facilmente etichettati per nazionalità e presunte responsabilità storiche. Ma nel frattempo, la macchina da presa vive accanto agli attori e al regista teatrale Oliver Frljić lo sconquasso interiore che accompagna la creazione dello spettacolo, costruendo nuovi fantasmi accanto a ciascun interprete, liberando le parole, le lacrime e le violenze sui corpi in uno spazio di fuori campo assoluto.

L’incubo, dunque, resta fuori dallo spazio cinematografico, relegato nella storia e nel fuori campo, disperso in un vuoto nero che inghiotte il teatro spopolato di notte. Slijepčević sceglie di conturbare il suo spettatore negandogli la visione della finzione sul palco, bensì mettendolo di fronte alla violenza vera, quella della reazione suscitata da chi guarda – il regista Frljić prima di chiunque altro – e quella scavata all’improvviso nella vita di Nina, dodicenne serba che finisce per definirsi etnicamente nella vita a partire da una recita.
Il dolore si fa, allora, realtà; il palcoscenico esplode con le sue tracce storiche in questo presente – quello di Nina, ma anche quello dei compagni rom, del bosniaco Frljić, della ragazza serba vista nell’incipit del film – ; il dramma esce in strada, il cinema anche nel tentativo d’inseguirlo. Eppure, la lezione di vita che il teatro ha saputo restituire “alla gente normale” sembra essere del tutto assente fuori da quello spazio esclusivo. Il cinema svela, in ultimo, una lesione ben più grave nell’indifferenza della strada, impossibile fuga dal contenitore-reale.

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