Festival dei Popoli 60 – Nos défaites, di Jean-Gabriel Périot

Périot si approccia a un gruppo di allievi di un liceo di Ivry-sur-Seine, per cercare di capire la loro visione della politica, dei rapporti di classe, delle lotte passate, presenti, future

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Il maggio francese, cinquant’anni dopo. Nella primavera meno infuocata del 2018, Jean-Gabriel Périot si approccia a un gruppo di allievi di un liceo di Ivry-sur-Seine, nella regione metropolitana di Parigi, per cercare di capire la loro visione della politica, dei rapporti di classe, delle lotte passate, presenti, future. Le domande sono semplici, ma le risposte impossibili quasi. Cos’è uno sciopero? A che serve? Cos’è un sindacato? Cos’è una rivoluzione? Périot interroga i ragazzi con la freddezza implacabile della macchina che li inquadra. Eppure non sta solo sul “dato di fatto” sociologico, generazionale, come se stesse conducendo un’inchiesta statistica. Sente la necessità di attivare un processo, di innescare scintille che alimentino determinate questioni. Addirittura immagina la possibilità di un’immedesimazione con certe battaglie e rivendicazioni. Per questo rimette in scena insieme agli studenti alcune sequenze di film “militanti” intorno al ’68. La cinese di Godard, La salamandra di Alain Tanner, À bientôt, j’espère di Chris Marker e Mario Marret, La reprise du travail aux usines Wonder, cortometraggio di Jacques Villemont, Camarade di Marin Karmitz, Avec le sang des autres del gruppo Medvedkin…

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Sono microlezioni di storia del cinema francese. Che sin dagli albori si gioca intorno alla fabbrica, si gira fuori ai cancelli. Quindi è anche storia clandestina, undeground, di sirene di fine turno, picchetti e occupazioni, di immagini rubate alla concitazione della lotta, di collettivi e cine-pugni, di salari da difendere e parole d’ordine maoiste. Ma per un liceale di oggi sono esperienze e immaginari che appaiono fuori tempo, oltre l’orizzonte contemporaneo. E Périot registra e rende evidente questa distanza giocando sulla differenza di formato e “grana” delle immagini, sullo scarto tra la piattezza digitale del presente e le stratificazioni polverose degli originali “replicati”, il bianco e nero da 16 mm, la pista sonora che sembra emergere dal buco del tempo (grande lavoro al suono di Ségolène Fulia, Claire Goldmann-Fournier, Colin Favre-Bulle)… Che sia proprio in questa differenza una delle più gravi delle nostre sconfitte? Il non aver saputo tener in vita un’immagine differente, che desse conto della profondità del tempo e dei frammenti e delle voci che lo attraversano, un’immagine non conforme alla superficie pulita, liscia, indifferente delle strategie del visibile di oggi. Strategie che si ostinano respingere tutto ciò che sa di guerriglia, ciò che appare infiammato, bruciato, fuori fuoco, caotico, dissonante.

Non so cosa dire. Un po’ come i ragazzi del liceo Romain-Rolland che, molto spesso, non sanno neppure di cosa si parla, sono condannati a non essere in parte, fuori ruolo. Eppure l’esperienza laboratoriale in cui si muovono li riporta alla dimensione collettiva da cui nascono buona parte di quelle immagini, crea quello spazio pubblico in cui si articola ed esplode la discussione, là dove avviene la presa di coscienza e l’azione si fa politica. C’è chi recita e chi collabora alla direzione degli attori, poi ci si scambia di posto. Chi sta davanti all’obiettivo passa dietro, vengono meno le distinzioni tra cast e troupe, gli ingranaggi delle specifiche tecniche da catena di montaggio fordista saltano nella condivisione orizzontale, caotica delle posizioni. Si rimette in moto un pensiero e un’urgenza. Alla fine, anche loro sapranno che la lotta è necessaria. Ben al di là delle sconfitte.

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